Roberto Fega: gli invisibili fili della musica

Roberto Fega è un musicista non allineato, con le orecchie spalancate, una voce molto personale e una profonda sensibilità capace di intercettare segnali da ambiti diversi, che spaziano dal jazz all’elettroacustica. Il suo ultimo disco, Echoes From The Planet, su Setola di Maiale, ci è piaciuto particolarmente, è stato uno dei nostri dischi del 2019, ed era quindi forte la curiosità di entrare più dentro le varie domande che i suoi suoni seminano nelle orecchie. Una sorta di audiogiornale tra cronaca e politica, un blob denso di spunti interessanti: la musica come virus da questo spazio, visioni quotidiane allucinate e nitidissime, echi dal pianeta.

Sono giorni, questi, in cui il panorama acustico delle nostre città si è in parte ridefinito. Io personalmente sono un musicofago seriale, per cui tendo a tenere sempre acceso lo stereo quando sono a casa. In questo periodo invece spesso mi ritrovo a stare semplicemente in sala con le finestre aperte, ad ascoltare gli uccelli.
Qual è la tua esperienza di ascoltatore in questo periodo? 

Roberto Fega: Avendo molto tempo in più mi sono dedicato a riascoltare molti lavori musicali che non ascoltavo da tempo, Robert Ashley con Automatic Writing, Don Cherry‎ con Eternal Now, Orsi Lucille, Orthotonics con Liminous Bipeds, Biota con Invisible Map, tutti i lavori ambient di Brian Eno che riascoltando trovo di una forte difficoltà compositiva non molto apparente. E molti, molti altri. Poi il tempo libero è stato colmato con le collaborazioni a distanza con Mubin Dunen, musicista curdo (santur, ney e voce), Murat Yazar, fotografo curdo “insieme // bı hevra // birlikte // together”, Marco Colonna, con il fumettista Andro Malis “Floating Man” e mie nuove composizioni dove la parte video ha fatto da partitura: “Is”, “Mold Art ”, “Revenge”. Tutte pubblicate su YouTube e Vimeo.

Il tuo primo ricordo collegato alla musica?

Bella domanda, devo scavare. Durante il periodo del morbillo, chiuso in casa ascoltando Storie Di Un Impiegato di De André su cassetta e poi l’estate dopo dalla mia nonna in vacanza ascoltando In The Court Of The Crimson King dei King Crimson e The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd sul terrazzo, solo soletto.

Come nasce questo stare a metà, tra, banalizzando, jazz ed elettronica?
Hai iniziato prima con le ance, immagino. Mi racconti il tuo percorso?

Ho iniziato con l’elettronica, MS20, Casio Sk1 il primo campionatore economico. Poi ho aggiunto il sassofono e clarinetto perché ero affascinato dal polistrumentismo e dalle sonorità dei Tuxedomoon, poi con il tempo ho separato la ricerca e l’improvvisazione radicale e la musica di strada, la prima fatta con l’elettronica e la seconda con il sassofono e principalmente con il progetto di musica di strada del collettivo Titubanda. Durante questo periodo, in cui convivevano queste due anime, l’esperienza decennale con il collettivo romano Cervello a Sonagli e quello nazionale del Circa, entrambi dedicati alla promozione e diffusione di musiche eterodosse tramite concerti, laboratori e trasmissioni radiofoniche, ha avuto un’influenza enorme, perché mi ha dato la possibilità di affinare conoscenze e pratiche (laboratori di improvvisazione radicale di Tim Hodgkinson e di composizione con Amy Denio e Jessica Lurie). Dopo un’intensa frequentazione dell’improvvisazione radicale comincia ad affacciarsi l’attività della musica di strada del collettivo aperto Titubanda, un collettivo musicale aperto a tutti, dedito all’attivismo politico con repertorio sud-americano, esteuropeo, egiziano, africano, indiano, jazz-rock, punk, jazz fino a Sun Ra e Art Ensemble Of Chicago. Queste due anime continuano a coesistere oggi, impreziosite da continue escursioni nel mondo del teatro, con la danza, le installazioni e l’insegnamento in scuole di musica.

Il tuo ultimo disco, Echoes From The Planet, uno dei migliori del 2019 per me, è una specie di audiogiornale iperrealista e onirico al tempo stesso: mi racconti un po’ come hai lavorato, che fonti hai utilizzato, che meta, se ne avevi una definita, ti eri prefissato all’inizio del percorso?

Con il precedente Daily Vision ho iniziato ad avere un approccio diverso per il concept di un lavoro musicale, ho ridotto al minimo l’astratto per dedicarmi a temi sociali/antropologici/politici. Dopo 7 anni avevo in mente come sviluppare il mio lavoro musicale, spingere molto l’aspetto compositivo, creare suoni intesi come singoli strumenti musicali e di conseguenza avere un’orchestra di strumenti/suoni. La composizione digitale ci permette di avere delle composizioni iperstrutturate che spesso non vengono sfruttate. Non sono sicuro di aver centrato l’obiettivo, per il prossimo lavoro accentuerò la composizione iperstrutturata.

Ho l’impressione tu sia rapido nel processo di composizione e realizzazione dei tuoi materiali. Mi sbaglio? Come procedi?

La composizione digitale, se hai un’idea chiara, ti permette di essere veloce, di valutare immediatamente quello che stai componendo ed esser rapido nella sperimentazione.
Solitamente lavoro a strati, cercando di creare una base sonora che non abbia molta massa, perché poi non riesci ad aggiungere altri livelli e di conseguenza non riesci a iperstrutturare la composizione. Tendo a creare un suono o dei groove irregolari/randomici, che hanno di regolare solo l’inizio e la fine del pattern. Dopodiché suono sopra questi pattern pulsazione di basso, contrappunti e melodia: quest’ultima cerco di renderla inusuale. Per me la melodia è anche una sensazione sonora riconoscibile. Per le voci uso le interviste che si trovano su internet, estrapolo poi una sequenza di parole che hanno quella che per me suona come una “melodia”, ma non un senso. Alla fine io imposto i miei lavori con i canoni classici della composizione, cercando di innovare ogni singolo elemento: la melodia è una sensazione sonora riconoscibile, il ritmo è una pulsazione ritmica tendenzialmente irregolare e mutevole, il basso è un contrappunto ritmico al ritmo, il controcanto è una linea sonora che dialoga con la melodia. Il tutto cercando di dare profondità timbrica.

Quali sono musicisti che senti affini come metodologia e come sensibilità? Se dico Bob Ostertag, dico una stupidata?

Hai indovinato, ci sono molte affinità con Bob Ostertag, ho avuto il piacere di suonarci insieme a Napoli e frequentarlo per un paio di giorni, è un musicista notevole ma anche una persona molto piacevole e molto impegnata politicamente. Il suo lavoro Sooner Or Later è per me un punto di riferimento. Ho letto il suo libro “Creative Life: Music, Politics, People, and Machines”, molto interessante. Come compositori poi mi affascinano Heiner Goebbels e Lutz Glandien. Robert Wyatt infine è il mio faro a trecentosessanta gradi di come deve essere un musicista e un attivista, mantenendo un lirismo e una poesia senza essere didascalici.

Citando la mia recensione, a me il disco era parso una raccolta di, appunto, echi dal pianeta Terra, come un audiogiornale o un blob in cui la parte video spetta alla nostra immaginazione. “Aprire gli occhi, chiuderli verso dentro, come suggeriva il poeta messicano Octavio Paz: e allora macerie, ipermercati come templi della desolazione americana, la democrazia (?) che avanza come il cemento, sirene, fumogeni, guerra, pubblicità. Come se su un vhs dove sono state registrati talk show, telefilm, news, il tempo avesse imposto il suo inesorabile dominio di ruggine e deriva, lasciando echi, distorsioni, ombre, apparizioni”. Mi interesserebbe molto mi dicessi qualcosa a proposito del significato politico che mi pare tu attribuisca alla musica, al suo ruolo di documento.

Riporto questa citazione, tratta dal booklet del cd Concert degli Henry Cow.
Question: But do you have a political message in the text also?
Answer: Yes. Mostly it’s quite concealed, it’s not very propagandistic, we don’t like to have a text which just uses political language without any care for words as words. Because, as an artist, one is using words, and one is engaged in those words as a poet. Propaganda ignores that side, and we don’t like the music to be just a kind of vehicle for a straight political message, cause, in fact, it should be the other way round. The politics is in what you are doing. If you’re a musician and you believe in socialism, then you have to bring those two things together. You can’t play reactionary rubbish, and say “I’m a socialist” with the lyrics. You can’t play the same music as used by the system to oppress people, and put lyrics over the top to say -We’re socialists.-You have to change the music.

Con l’esperienza ventennale della Titubanda, che è una banda di strada che fa parte del neonato IFA (Internazionale Fanfare Activiste), una rete di bande attiviste europee e di oltre oceano, ho maturato che è politico anche suonare per strada in quartieri degradati, non solo per solidarietà ma anche per il semplice gesto di scardinare la grigia routine di questi posti desolati.
L’arte di strada è molto importante, perché ti permette di recuperare in parte quell’approccio alla musica che in Italia abbiamo perso, quello della musica popolare inserita nel tessuto sociale, come forma di socialità, senza entrare nella routine cd/presentazione/diffusione/ricerca concerti. Una dimensione che secondo me manca alla musica di ricerca/sperimentale, troppo dedita ad un approccio intellettuale. Ho scoperto da poco dopo la lettura di “Stockhausen Serves Imperialism” di Cornelius Cardew; la sua Scratch Orchestra, con Michael Parsons e Howard Skempton, era un collettivo di musica contemporanea che suonava nelle strade!

“8 August 1956 – 18 April 2015”
A chi è dedicata questa traccia? M pare tu voglia sempre raccontare una storia nei tuoi pezzi, lasciando il tempo e lo spazio mentale all’ascoltatore per crearsi la propria visione personale. Che ne pensi? E, a proposito di visioni, tu la vedi, la tua musica, la associ ad immagini? In diversi momenti l’impressione è quella di un blob audio dove si mescolano istanze e ambiti tra i più disparati. È un processo ricercato, casuale, cristallizzato nel tempo o che?

Questa traccia vuole semplicemente mettere in contatto temporale due tragedie, il disastro di Marcinelle dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle in Belgio, dove morirono 136 italiani, e la tragedia del 18 Aprile 2015 nel Canale di Sicilia, il naufragio di una imbarcazione eritrea usata per il trasporto di migranti tra 700 e i 900 dispersi. Con questa connessione temporale si sintetizza la dinamica della migrazione, che è una necessità di tutti e che non deve essere negata a nessuno, perché se oggi gli italiani possono liberamente andare all’estero a lavorare (sono dei migranti e non cervelli in fuga), questa libertà deve essere data anche a chi viene a migrare nel nostro territorio. La musica ha sempre un suo filo narrativo invisibile anche nella sua causalità, quando inizio a pensare ad una traccia non mi rifaccio a visioni o immagini, ma cerco di creare uno stato d’animo. Quello che è importante per me è che al riascolto ci sia la sensazione di uno stato d’animo riconoscibile.

Tutti i titoli dell’ultimo lavoro hanno riferimenti alla nostra attualità ed ai suoi conflitti. Ti va di entrare nel dettaglio?

Echi dal pianeta, nel bene e nel male. Le grida strazianti dei migranti, dell’antropocene o capitalocene, le nostre esistenze sempre più disgregate coi tempi di vita dettati dal capitalismo (musica inclusa), animali che si estinguono per colpa dell’uomo. Ma ci sono anche echi positivi, come quelli provenienti dal Kurdistan dove nasce la jineoloji, ovverosia la scienza per la liberazione della donna, dal Chiapas dove c’è una continua lotta contro le aberrazioni del capitalismo.
Questi non sono gli unici echi positivi, sono i rappresentanti di molti microconflitti mondiali che si possono trovare soprattutto in Sudamerica, sempre meno in Occidente.

Il primo e l’ultimo disco che hai comprato?

Il primo vinile che ho comprato è stato Selling England By The Pound dei Genesis, l’ultimo Gahan di Yasamin Shahhosseini, una musicista iraniana che suona l’oud.

Musicisti italiani e non che senti affini?

Tutti i musicisti con cui condiviso un palco.

Collaborazione dei sogni?

Robert Wyatt.

Musicisti che trovi sottovalutati?

Son tanti, purtroppo in questi ultimi decenni la qualità della musica non è al primo posto
delle scelte dei promotori culturali.

E invece sopravvalutati?

Preferisco non rispondere, vale il concetto della domanda precedente.

Com’è essere un musicista non allineato (ammesso che una linea ci sia, o ci debba essere) in Italia oggi? Frustrante, eroico, noioso, divertente, stancante? Scena, locali, spirito di comunità, persone di riferimento, attitudine, etichette, dinamiche? Per chi fai musica? Per te stesso, anzitutto, per una necessità personale? Ci vivi?

Prima di tutto non ci vivo, devo fare altri lavori per arrotondare.
Negli ultimi (molti) anni la musica ha cominciato a suscitare sempre meno interesse nella vita delle persone, creando una contrazione del mercato. Insieme a questa contrazione, molte musiche che prima avevano come aspetto principale la ricerca e l’innovazione ora sono omologate,
piene di cliché e con poche idee. Prima pubblicare per Ambiances Magnétiques (con il trio Taxonomy), oltre ad essere un vanto personale, portava una spendibilità sul mercato, ora queste conoscenze mancano nel tessuto musicale, dove regna l’approssimazione e non la competenza. Ti ho descritto un quadro un po’ grigio, però purtroppo è così. I posti per suonare son sempre meno, e manca una scena musicale di locali e promoter. Il mio ultimo lavoro ha avuto una gestazione faticosa perché pensavo sempre
all’utilità di fare un cd, avevo l’esigenza di comporre ma non quella di propormi sul mercato.

Field recordings: ti interessano, come ti approcci?

Il field recording mi interessa ma non mi affascina molto, perché per me la composizione o una narrazione musicale sono importanti e non riesco ad andare oltre il piacere di catturare suoni “naturali” per poi usarli in composizione.

La domanda sui field recordings mi viene in mente anche perché mi sembra che nei tuoi dischi ci sia una forte idea di ecologia del suono, come se andassi a rovistare a volte in una discarica immaginaria a cercare materiali da recuperare e riavviare a nuova vita. Hai una sorta di manifesto, implicito o meno, a cui fai riferimento? 

Non so se ho ben capito la domanda, però mi fa riflettere sul fatto che io applico la Plunderfonia e il Plagiarismo su me stesso, sui miei materiali sonori, visto che i miei live non sono mai la versione dal vivo dei miei lavori su cd, ma sono sonorizzazioni dal vivo su video (“Alice” di Jan Švankmajer, “Arzak Rhapsody” di Moebius, “Street of Crocodile” dei fratelli Quay), oppure live su concept (“La voce del poeta”) o nuove modalità di controllerism dal vivo (“Mechanical sensor”); alla fine mi ritrovo a riusare questo materiale sonoro appositamente generato per i concerti. Da questi suoni prendo parti da usare per composizioni in studio, ma anche molto materiale di voci di progetti che non hanno avuto mai una pubblicazione, oppure scarti di prove, che spesso riprendono vita per altri progetti. A titolo di esempio, ecco degli estratti live.

Vorrei entrare in profondità nella tua storia di ascoltatore. Mi racconti per sommi capi il tuo iter? Folgorazioni, rivelazioni, deragliamenti, satori, pentimenti, gruppi della vita, scene che ti sono care? 

Ho iniziato da piccolo perché avevo un fratello maggiore che ascoltava musica, quindi mi rifacevo ai suoi gusti che erano più o meno la scena progressive, rock, jazz rock italiano e non. Poi con il passare degli anni, con la new wave comincio a creare un mio percorso musicale, dove le folgorazioni sono state molteplici, dai primi Clash, Remain In Light dei Talking Heads e tanti altri, perché in quel periodo la produzione musicale era immensa. Poi con il Cervello a Sonagli comincia il mio percorso di conoscenza e approfondimento delle musiche eterodosse, dopodiché con la Titubanda iniziano la fase della musica etnica mondiale e italiana. Tendenzialmente a me piace ascoltare tutto e suonare tutto, la rigidità dei generi non mi interessa. Ultimamente ho scoperto il movimento nuovo tango argentino (molto politico) e le loro composizioni sono molto vicine alla musica contemporanea.

Vorrei entrare in profondità nella tua storia di ascoltatore. Mi racconti per sommi capi il tuo iter? Folgorazioni, rivelazioni, deragliamenti, satori, pentimenti, gruppi della vita, scene che ti sono care? 

Ho iniziato da piccolo perché avevo un fratello maggiore che ascoltava musica, quindi mi rifacevo ai suoi gusti che erano più o meno la scena progressive, rock, jazz rock italiano e non. Poi con il passare degli anni, con la new wave comincio a creare un mio percorso musicale, dove le folgorazioni sono state molteplici, dai primi Clash, Remain In Light dei Talking Heads e tanti altri, perché in quel periodo la produzione musicale era immensa. Poi con il Cervello a Sonagli comincia il mio percorso di conoscenza e approfondimento delle musiche eterodosse, dopodiché con la Titubanda iniziano la fase della musica etnica mondiale e italiana. Tendenzialmente a me piace ascoltare tutto e suonare tutto, la rigidità dei generi non mi interessa. Ultimamente ho scoperto il movimento nuovo tango argentino (molto politico) e le loro composizioni sono molto vicine alla musica contemporanea.

E poi, per quanto riguarda invece come si ascolta la musica: per una questione generazionale io sono cresciuto prima con le cassette, poi con i cd. Tu? Che ne pensi della tanto sviscerata questione della musica liquida e dei supporti? Io personalmente spesso mi comporto come se streaming e affini non esistessero, in questo sono un conservatore convinto, dall’altro non mi trovo d’accordo con chi sostiene che in giro ci sia musica poco interessante perché la qualità media si è abbassata in ragione della facilità di accesso ai mezzi di produzione della musica. È vero che chiunque oggi può fare un disco, ma è anche vero che abbiamo sempre le orecchie e possiamo distinguere una cosa fatta con senso della musica, sia essa un disco di power noise che uno di musica tradizionale, che ne pensi? 

Non sono i supporti la discriminante della fruizione della musica, ma i dispostivi di riproduzione. Prima era importante avere uno stereo che doveva avere delle casse di qualità e un amplificatore di qualità, e oltre ad apprezzare il lavoro musicale dei musicisti si apprezzava la qualità della registrazione e del missaggio. Mettersi a sentire un album con le casse separate con un minimo di distanza stereofonica era, è importantissimo. Ora l’ascolto dove viene fatto? Con quali casse? Si rispetta la spazialità stereofonica? Si ascolta seduti senza fare altro? Secondo me è peggiorato il lavoro dell’operatore culturale, che è sempre meno competente.

E i tuoi dieci dischi da isola deserta?

Robert Wyatt: Rock Bottom
Iannis Xenakis: Electronic Bohor
Michel Chion: Preludes Á La Vie
Henry Cow: Concert
The Ex & Tom Cora : Scrabbling At The Lock
Tuxedomoon: Desire
Lutz Glandien: Domestic Stories
Dedication Orchestra: Exec
Iva Bittova & Vladimir Vaclavek: Bilé Inferno
Heiner Goebbels: Shadow / Landscape With Argonauts

Roscoe Mitchell una volta ha detto: “Il silenzio è perfetto così. Bisogna avere molta cautela nell’interromperlo”. Un tuo commento a riguardo?

Concordo. Mi fa riflettere che il silenzio ormai per gli urbani è inesistente. Inoltre il silenzio nella musica è quantizzato dalla pausa. Spesso questa non viene presa in considerazione, ma a livello compositivo dà molta forza ad un brano.

Una cosa che tutti dovrebbero ascoltare e che probabilmente tanti non conoscono?

I lavori del pianista argentino Agustín Guerrero.