Reynols: musica “brutta” dall’Argentina

“Reynols, Minecxio Emanations 1993 – 2018”

ReynolsDa Buenos Aires con amore

Domanda: Pensi che esista l’universo?
Miguel Tomasín: No, non esiste, è solo fantasia.
(da Introduzione alla (non) filosofia di Tomasín, 1998 – Marc Masters) 

Coi Reynols non c’è nulla che somigli a una “storia esatta”, tutto resta nelle ombre dell’incertezza. Prendiamo a prestito quest’affermazione (pubblicata sul webmagazine The Quietus) di Fernando Perales, chitarrista e bassista e membro aggiunto per qualche anno della misteriosa band argentina che agli esordi si faceva chiamare Burt Reynolds Ensamble e che poi per ovvie ragioni decise di non dare fastidio al celebre attore americano; resta da capire se il baffo più famoso di Hollywood ne fosse a conoscenza, ma nutriamo dei seri dubbi, da qui la natura effimera e beffarda del trio. Non è un caso che si trovi pochissimo materiale su di loro – Miguel Tomasín, batterista-frontman sui generis e vero trascinatore della band, Anla Courtis e Roberto Conlazo – ma prima o poi tutto torna a galla, anche la musica assurda che hanno prodotto nel tempo, brutta e cacofonica per eccellenza, ha diritto di esistere sul web e non solo. L’occasione ce la dà Pica Disk di Lasse Marhaug, etichetta attiva dal 2007 e con un catalogo composto da gente di peso come Incapacitants, i suoi Jazkamer, Oren Ambarchi, Birchville Cat Motel… Il norvegese è un prolifico noiser che i lettori più attenti si ricorderanno di aver già incontrato da queste parti. Questa piccola realtà fa le cose in grande, è un atteggiamento tipico di chi non ha nulla da perdere, e fa uscire un mega box di sei cd più un dvd con incluso corposo booklet con le note di Marc Masters (penna per Wire, Pitchfork e Washington Post), che li ha seguiti sin dagli esordi e che include dichiarazioni dei singoli componenti e di musicisti che li hanno apprezzati, compresi un paio di album di inediti e performance dal vivo, poster, articoli e quant’altro possa servire a far venire l’acquolina in bocca ai patiti.

Musica per organi andati a male

Noi siamo una band normale, per i nostri standard. (Anla Courtis, Paris Transatlantic Magazine, 2003)

Reynols

Ascoltiamola questa band “normale”, allora… Disastrose scudisciate rumoriste che fanno impallidire i Noxagt in “Paleolithic Tango” (già il titolo è tutto un programma…) oppure i filamenti drone inquieti in “Portátil” (con una tromba in lontananza che pare di essere a un funerale sonorizzato da uno sciame d’api impazzito): questo accade nel primo cd, Early Reynols, dove trovano posto registrazioni dal vivo risalenti al 1993, alcune veramente fuori controllo. Coi tre c’era pure Cristian Dergarabedian a basso, tastiere e trombone, e si arriva distrutti ma felici dopo l’ascolto. Il secondo cd è un album inedito, Vedeosmas Tecretre, fate conto di ascoltare un Neil Young che s’è inalato dell’elio e fluttua tra le macerie di un rock cosmico e derelitto (“Chesa Can Can”) o di perdervi nella stratosfera col viaggio psichedelico di “Gomeso Gurulino”, fino a farvi sanguinare le orecchie con la nenia di “Mota Vonoan Masiano”, degna dei “peggiori” Sun City Girls (pensateli mentre cercano di rifare, da ubriachi, un pezzo dei Supreme Dicks, con finale noise da prassi); non è da meno “Novi Ormigas Tomica”, tribale e con wah-wah selvaggio. Questo è un album che – va detto – spesso dà l’impressione del buona la prima, ma è chiaro che in una produzione copiosa e frastagliata come quella dei Reynols risultati del genere siano sempre dietro l’angolo. I tre sono la classica band che vive(va) del guizzo del momento, che sa bene che non riuscirà mai a completare un disco (di senso) compiuto, e meno male, altrimenti avremmo derubricato la raccolta come spazzatura rumorosa. E per molti lo sarà certamente. Qui compare anche Pacu Conlazo a percussioni e “marmonio”… che tipo di strumento sia esattamente ancora non l’abbiamo capito.

Non mancano altre session, quelle raccolte nella terza parte. Jaz Ronco Japi Javas consta di otto tracce recuperate da registrazioni avvenute nel 2001 e l’anno successivo, quelli della drammatica crisi economica del Paese sudamericano, e inizialmente raccolte in un cd-r. Nulla di memorabile a dire la verità, a parte forse certi curiosi passaggi, come la vaghezza lunare di “Helo Baluba”, i flauti andini della simil-marcia funebre “Es Crevirte Lado Uno” e l’organo biascicato della lenta ed inesorabile “Moros Ostros”, dodici minuti di spossatezza psych.

Conceptual Mogal è il quarto cd. Ci troviamo tra un bizzarro tributo ad Al Jolson, performance nei pressi della Tour Eiffel, a loro dire usata proprio come strumento musicale, e alla NASA di Houston, sinfonie per diecimila polli (sì, avete letto bene…) e macerie ultra-noise degne dei Boredoms e dello score di “Eraserhead” (“Reynols Play The Atomium”, “Sounds Of The Argentinian Cooking Pot Revolution”). Viene da pensare che un certo Alan Splet a metà degli anni Settanta forse aveva capito tutto… Non manca la provocazione isolazionista di “Air Amplification Mogal”, sei minuti scarsi di suoni sordi da dopobomba.

Il secondo album inedito è il quinto cd. Con Roniles Dasa Selebro si torna ancora una volta all’inizio del decennio scorso, evidentemente un buon periodo per loro, dove si mettono in fila altri deliri ben congegnati: viaggi siderali al sapore di psichedelia marcia, “Argentina Televisor Corlo”, il panzer-rock della violenta “Rata Mibus Noni”, le storture blues di “Con Todo Diferentes Albectos”.

Il sesto e ultimo cd, Reynols and Friends, è quello della “previously unreleased stuff with selected worldwide friends”, e qui i nomi pesanti danno lustro a questi ragazzi che, forse, mai si sarebbero aspettati di suonare assieme a Pauline Oliveros, conosciuta durante un workshop tenutosi a Buenos Aires: con lei osano mettere in primo piano un mix quasi sordo e funesto (“El Pajaro Mixto Returns”), mentre con gli Acid Mother Temple realizzano “Burning The Sun, Gently”, una registrazione catturata da un live che sa di sberleffo floydiano tra il sognante e poco altro, non memorabile a dirla tutta. Eppure, sono un po’ tutti i brani a lasciare il segno, dall’apertura di “Saturnos Cavesa Fromas”, un mantra oppiaceo dove riverberi di chitarre e armonica a bocca si intrecciano come a dare una vaga idea di blues della Pampa argentina, una visione della Pampa fortemente lisergica naturalmente, ai richiami orientaleggianti e in salsa library di “Koomorny’s Dream”. Ci sarebbe poi il sabba nero pece di “Kraut Sandalias”, un assalto sonoro che è la degna metafora di un paesaggio terrestre dove gli esseri umani sembrano spariti da secoli.

A un certo punto della sua carriera il trio riesce pure ad andare a suonare negli USA, ma Tomasín non è della partita: a questo proposito Conlazo dichiara nel documentario Searching For Reynols, un dvd con novanta minuti di live e testimonianze sul loro mondo: Al momento di fare il nostro primo tour negli Stati Uniti, Miguel non volle venire, perché diceva che dopo il Messico c’era l’oceano, e gli Stati Uniti non esistevano.

I Reynols non si sono fatti mancare proprio nulla, dato che sono finiti pure sulla tv argentina, come raccontano sempre a Masters: Per un certo periodo I Reynols erano tutto il tempo in TV. È stato molto eccitante suonare ogni giorno alle 3 del pomeriggio per un’audience fatta di mummie e nonne da tutta la nazione. Specialmente da quando abbiamo suonato tracce di Snakefinger, Yoko Ono, Kenny Rogers e del free-jazz non pianificato.

Tra i tre, Courtis rimane quello più prolifico, ancora oggi è parecchio attivo e contare le collaborazioni (con lo stesso Marhaug, Ralf Wehowski, i Birchville Cat Motel, BJ Nilsen, Dylan Nyoukis) e i dischi a suo nome o sotto vari pseudonimi (Origami Southamerika, ÜL), resta un’operazione oggettivamente impegnativa.

Questa, l’avrete capito, è musica aliena per eccellenza, che potrà dire qualcosa e piacere per davvero a pochi adepti (e non prendetela mai troppo sul serio…), roba che resterà nascosta ai più, anche se l’ha ascoltata e apprezzata uno come Thurston Moore.

Conosco i Reynols: loro sono tra le persone più sperimentali e selvagge che abbia mai sentito. (Thurston Moore. Rolling Stone magazine, #201 Argentina, dicembre 2014)