REFREE, La Otra Mitad

REFREE, La Otra Mitad

Una città allagata dal sole, un mondo dove l’amore regna, con le sue spine e i suoi languori: l’altra metà di un cielo differente da quello sotto il quale siamo abituati a stare. Raul Fernàndez Mirò, in arte Raul Refree da Barcellona, compositore, produttore e cantante classe 1976, spunta fuori dal nulla e se ne esce con un disco che è bello come una vacanza in Andalusia a vent’anni. Avventuroso, magnetico, accogliente. Un posto dove stare e dove trovare riposo e meraviglia. Voci raccolte per la strada, un flamenco come potrebbe intenderlo David Grubbs (“Que Te Vayas”), quasi un’esortazione ad andarsene a spasso nel cosmo, o in giro per la metà del pianeta che normalmente sta in ombra. Le gocce di sostanza psicoattiva che irrorano il tessuto smagliato e splendente bagliori flamenco-drone (sembra una pazzia, lo so, ma ascoltatela) di “Dar A Luz” e in generale una attitudine libera e spregiudicata sono testimoni di un talento notevole nel calibrare, dosare, mescolare, ripercorrere orme antiche ed inventare. Si parla da più parti di new flamenco (Refree ha lavorato con nomi quali Silvia Pérez Cruz e Rosalìa), e se tutti i dischi suonano come questo, beh, abbiamo trovato un nuovo filone d’oro da setacciare. Se in alcuni frangenti vengono a galla memorie degli ottimi Blues Control (protagonisti di un bel disco assieme al guru Larajii per la serie Frkwys della RVNG, che ci ha regalato altre perle come il disco di Mike Cooper con Steve Gunn, Cantos De Lisboa, o la collaborazione tra Sun Araw, M. Geddes Gengras e The Congos, Icon Give Thank), in altre ascoltiamo straniti un imprecisato e imprecisabile ibrido tra folk dell’anima (non quella peste combat che ancora sparge il suo fetore in troppe stanze) e cocciute tentazioni psichedeliche. A volte sono esercizi per sola chitarra, da qualche parte tra un Mazzacane Connors meno arreso ed un’Africa remota e vicinissima. Oppure brevi sketch che sanno di Richard Thompson (se non lo conoscete, recuperate assolutamente Grizzly Man di Werner Herzog in dvd e negli extra troverete un fantastico documentario su come sia stata girata la magnifica colonna sonora, che vede l’ex Fairport Convention assieme a geniacci come Henry Kaiser e Re Mida Jim O’ Rourke). “La vita per me sono tre giorni, due ce li godiamo, il terzo o segui a godertela, oppure giù finisce lì”. Ed un’altra voce, rauca e sottile: “Israel, bisogna vivere”: con questi field recordings si apre “Barbacoa”, una delicata miniatura acustica, fragile ed ariosa. Pare quasi di sentirlo, il calore di un giorno d’estate in terra di Spagna, in questo come in altri pezzi, episodi di una storia secolare e che miracolosamente riesce ogni volta – se accompagnata dall’ispirazione – a suonare urgente, viva, vera. Ci sono anche luoghi oscuri, in queste lande arse dal sole: “Fandangos Negro”s, una sottile minaccia che di nuovo con grande intuizione trasforma il canto del flamenco in altro da sé, trasfigurandolo in un incubo lynchiano ambiguo, perverso, affascinante. Viene in mente la parola duende, così connaturata allo spirito di questa musica e però intraducibile. Ha a che fare comunque con uno spirito maligno, che crea rumori (proprio quelli che si avvertono in questa traccia) e inquieta i sonni degli uomini. Finita la notte, è di nuovo tempo di bagnarsi nelle acque di un fiume che scorre da tempo immemore (“Cuando Salga El Sol”); poi i Sonic Youth acustici (il nostro ha collaborato con Lee Ranaldo) di “LGO28022017”. Cala il sipario su questo disco strano e straniante, eppure istantaneamente familiare, uno shoegaze che sembra un filmino in super8 di un pomeriggio di agosto a Siviglia, dove nulla accade almeno fino alle 6 di pomeriggio per il troppo caldo (“Mariscar”). Un disco perfetto per immaginare fughe; ennesima conferma per la tak:til, che ci ha già fatto viaggiare con Yonatan Gat, 75 Dollar Bill, Jiha Park e i grandi Širom (un gruppo semplicemente fuori dal comune che inspiegabilmente quasi tutti hanno dormito). Da ascoltare nella canicola che sarà, abile nello sfuggire a definizioni, capace di alludere e di illudere, come un miraggio di ombra sotto una luce che non ammette repliche. Quindici tracce dove minime epopee quotidiane scolorano nel mito, donchisciottesche nel loro sfidare i mulini a vento delle definizioni e delle barriere tra pubblici, generi, parole, orecchie, nazioni, idee, corpi. “Se non mi si chiede che cos’è, lo so. Se me lo si chiede, non lo so” (Sant’Agostino).