RAINBOW ISLAND, ILLMATRIX

RAINBOW ISLAND, ILLMATRIX

Difficile che in una recensione italiana si parli male di un gruppo italiano giro “do it yourself”, “underground” o “indipendente”. Più semplice non occuparsene e basta, del resto non ha senso attaccare chi già non se la passa bene. Non so nemmeno se sia il nostro compito: molto meglio dare una mano a chi vale. A volte, però, tocca fare le merde. Uno suppone di avere dei lettori e pensa sia corretto avvertirli che, ad esempio, i Rainbow Island sono proprio male.

Seconda premessa. Nei giri che da secoli sosteniamo band ed etichette si danno volentieri una mano: nessuno si fa pagare da Tizio di Qualcosa Records gli Abyss Studios di Peter Tägtgren (l’unico uomo che conosco a possedere un villaggio, una storia bellissima) o il mastering di Plotkin (o di Rashad Becker); oggi si tratta più che altro di una partnership, in cui qualcuno un po’ più bravo a organizzarsi prende un lavoro già all’incirca finito e prova a farlo girare tanto, accollandosi le spese della stampa. Ecco, a me, vista la debolezza della loro musica, vien sempre da pensare che i Rainbow Island siano anzitutto grandi fan delle piccole etichette per le quali escono, che siano magari “amici” (l’ambiente è piccolissimo) e che dunque, in un contesto di povertà assoluta, nessuno si senta di dire loro di no nel momento in cui chiedono aiuto. È terribile, lo so. Mettiamola così, allora: sono dei simpatici a cui non si possono voltare le spalle, gente che comunque ha dato una mano quando serviva… quindi come si fa a essere stronzi? Io non vedo altra spiegazione.

ILLMATRIX (tutto maiuscolo, mi raccomando, perché per loro dev’essere importante) è un mischione pigrissimo di Black Dice (altezza Broken Ear Record – Load Blown), dub e world. È tutto gettato per terra con nonchalance, ma non è vero che è voluto: non sanno che pesci pigliare (ma credono sia giusto non saperlo per un numero inaccettabile di minuti) o più probabilmente stanno sistemando male e alla rinfusa i miliardi di spunti che hanno in testa, essendo – sempre secondo il mio intuito – quel tipo di persone che ha comprato/scaricato il mondo intero, senza però ascoltarlo. Già a un terzo del disco avviene la morte del tutto (che a pensarci è un risultato) e sale l’astio, con l’aggravante che siamo perennemente al rallentatore più spinto: quando ti chiami Scorn o Zonal è l’arma definitiva, ma quando il tuo nome è quello di un videogioco che non ho mai finito (vero motivo del mio fastidio pregiudiziale) è pura e semplice Guantanamo.

Basta. Basta, dai.