RAIME, Tooth

Raime

I Raime, cioè i producer inglesi Joe Andrews e Tom Halstead, hanno appena pubblicato su Blackest Ever Black il loro personalissimo tributo ai Cure periodo 1980-82. Siccome non devono essere proprio stupidissimi, la scelta di quali pezzi ricontestualizzare all’interno del loro sound, che è elettronico/digitale e proviene dai club, è stata chirurgica. Tooth, ascoltato in obitorio, è un nuovo “Carnage Visors”, colonna sonora del video che si poteva vedere i concerti dei Cure nel 1981 (era realizzato dal fratello del bassista Simon Gallup). “Carnage Visors”, brano strumentale, era un esercizio in minimalismo di Robert Smith, dove per minimalismo intendo proprio il movimento artistico, che lui mi pare avesse studiato per un periodo a scuola: ripetizione ipnotica e suoni ultrascarni, che i Raime ri-declinano per trentotto minuti, una breve durata che per coincidenza è la stessa che trentacinque anni fa cercavano tre ragazzi immaginari. La chitarra e le percussioni di Tooth possiedono la stessa asciuttezza e spigolosità che Smith aveva voluto per Seventeen Seconds e Faith (anche ascoltare “She’s Lost Control” di chi sapete voi è molto d’aiuto), mentre alcuni suoni lancinanti di synth devono molto a Pornography e a un altro b-side perfetto come “Splintered In Her Head”. I bassi, pulsanti e profondi, qualche broken beat e un’atmosfera da dub spettrale sono il contributo “esterno” dei Raime – spesso visti come i continuatori “intelligenti” del dubstep e di altri suoni downtempo – a un discorso iniziato molto tempo fa. Ciò che qualcuno chiamava “industrial” per Quarter Turns Over A Living Line, qui è diventato “post-punk”. In fondo, per rimanere in un contesto a bassa battuta, i Raime sono dei Portishead degli anni Dieci, appassionati di altri generi rispetto a Barrow e Utley, anche se spesso si tratta di territori confinanti. In Tooth il gioco postmoderno è più (troppo? Ecco forse il vulnus) scoperto, anche perché le fonti dei Raime appartengono davvero a tutti, e di sicuro ancora di più agli inglesi che agli italiani.

Personalmente, per questioni affettive, potrei sentirmi ogni giorno un disco simile, perché mai come questa volta lo ascolto in un modo totalmente diverso da un ventenne. Nervoso, affilato, scuro senza essere depresso, Tooth non è un capolavoro, non è il futuro (non stanno guardando avanti come altri in questi anni), ma se fossi in voi me lo terrei almeno un po’ nell’hard disk.