R.Y.F., Everything Burns

Everything Burns è l’ultimo album di Francesca Morello, in arte R.Y.F., e racchiude al suo interno una molteplicità di nuovi inizi per la musicista ravennate. Si è infatti venuta a creare una costellazione, tanto radicata sul territorio romagnolo quanto proiettata verso una scena internazionale, in cui R.Y.F. è ormai coinvolta a pieno titolo, pubblicando il disco per Bronson Recordings con la supervisione di Bruno Dorella, suonando al festival di arti performative di Santarcangelo e soprattutto prendendo parte all’ultimo spettacolo della compagnia teatrale Motus. Everything Burns è, infatti, la traduzione inglese di Tutto Brucia, lavoro presentato lo scorso settembre al Teatro India di Roma in cui Francesca Morello è in scena con la sua chitarra, suonando e cantando dal vivo per accompagnare Le Troiane di ieri e di oggi – Silvia Calderoni e Stefania Tansini – mentre si ritrovano espropriate della terra e dei legami, navigando nelle ceneri del presente da cui potrà forse nascere una nuova voce, una nuova presa di parola.

Se questa esperienza è stata (e continuerà ad essere, viste le molte date ancora in programma) sicuramente significativa per R.Y.F. – confrontarsi con i meccanismi di una produzione teatrale e con il suo pubblico, occupare il palcoscenico insieme ad altre performer, capire come la musica possa avere un posto all’interno di tutto ciò – sarebbe sbagliato pensare che Everything Burns sia un semplice precipitato del lavoro svolto per lo spettacolo. Non ci sarebbe stato nulla di male peraltro, ma di fatto il disco di R.Y.F. è, stilisticamente parlando, quasi l’opposto di quanto la musicista ha portato in scena in Tutto Brucia. L’album rappresenta infatti una svolta nel percorso di Morello, che ci aveva abituate a una cifra intimista e melodiosa, dalle ascendenze folk, in cui chitarra e voce costituivano un mondo. Everything Burns, invece, espande lo spunto che, nel precedente Shameful Tomboy, si era potuto ascoltare nella traccia “1st Times”: sintetizzatori, drum machine, strati di effetti sulla vocalità (qualche volta R.Y.F. gioca persino con l’autotune). Alla spontaneità «hobo» la musicista ha sostituito un sound molto ‘80s, alla restituzione del proprio universo interiore un approccio grintoso che non si trova fuori posto sul dancefloor.

Dopo le prime tre tracce, che scorrono compatte, con la title-track ci si prende più tempo rallentando i ritmi in un ottimo intermezzo dove, su di un tappeto costituito dal rumore di una fiamma che brucia e da un motivo 8-bit ripetuto in loop, vengono evocate tutte quelle frasi, svalutanti e dolorose, che il mondo – la famiglia, la società, la nostra testa – non smette di ripetere per volerci conformi ad un’idea, pretesa immagine virtuosa del benessere, dell’attrazione e del successo. «Are you a boy or a girl?», «You’re fat», «You should smile a bit more», «Be a man, don’t be a pussy». Ripetere queste frasi fa bene, permette di percepirle nella loro piccolezza, di disinnescarle. Il disco rappresenta infatti un inno alla diversità, come la musicista – questo sì – ci aveva abituato in passato, ma con una ritrovata affermatività, un desiderio di liberarsi delle zavorre per iniziare finalmente ad essere «orgogliosi di sé».

L’album procede con canzoni eminentemente pop come “Not Going Anywhere”, fino alle ultime due tracce che richiamano la «vecchia» R.Y.F., seppure con una produzione che ha profondamente modificato gli elementi in gioco: in “Muzik” e “Pocket Full Of Ashes” emerge di nuovo la bellissima voce, le atmosfere si fanno crepuscolari in queste due preghiere laiche per il mondo di domani.