Putan Club: l’arte serve a non suicidarsi
Raggiungo in videochiamata François Cambuzat e Gianna Greco sull’onda dell’uscita di un disco live dei Putan Club, registrato nel 2022 all’Amplifest. Prima di esso l’unica loro fatica discografica era stata Filles De Mai, pubblicata (come questo, del resto) dalla Toten Schwan nel 2017. L’impatto che la varietà e la potenza dal vivo dei Putan Club mi hanno spinto a ripercorrerne in qualche modo il tragitto, sull’onda aneddotica e di esperienza della coppia. Vedendo l’immagine del mio profilo a fare la prima domanda è sorprendentemente François…
Ciao Gianna, ciao François, mi vedete e mi sentite? Come state?
Gianna: Bene!
François: Quanti anni ha tua figlia?
Mia figlia ha quasi nove anni, ancora piccina. Non le ho ancora fatto ascoltare i Putan Club, sarà nelle prossime proposte, ancora non ci siamo arrivati!
Gianna: Le grafiche! Sono soprattutto le nostre grafiche il problema!
Vedremo! Grazie mille della disponibilità, intanto, per la vostra presenza… la prima domanda potrà sembrare scontata ma non lo è. Cos’è il Putan Club? Sul vostro sito vi definite un banco di prova, però siete anche una band… o forse qualcos’altro? Prima ancora: Putan Club si capisce dove si vada a parare nel significato, ma che lingua è? Non francese né inglese, come ci siamo arrivati?
François: Noo… è volutamente… all’inizio era un progetto che doveva durare tre o quattro mesi e, come dicevamo, era un banco di prova perché avevamo bisogno di provare con il pubblico, fonicamente. Capire come rendeva il tutto, se andavano ritoccate l’equalizzazione e la compressione. Avevamo degli altri progetti e doveva durare questo tempo, poi è sembrato essere immediatamente a fuoco, la gente lo richiedeva e chi programmava le date dei locali ne aveva sentito parlare e alla fine sono dodici anni che esiste (François esplode in una bella risata soddisfatta, ndr).
Beh, in effetti… quindi siete una band ufficialmente?
François: Ufficialmente? Ormai sì, sì, sì, sì… il nome io lo trovo bruttissimo perché è uno scherzo, doveva morire poco dopo, ma piace tantissimo a Gianna e ce lo siamo tenuti.
Bisogna farci pace, mi sembra giusto. Un’altra bizzarria, oltre al fatto che non dovevate essere un gruppo, è anche la vostra discografia: avete fatto il primo quasi per caso e dopo 8 anni un live. Non seguite il percorso classico di composizione e pubblicazione. Quando avete capito fosse ora di registrare di nuovo, perché dal vivo e perché all’Amplifest?
François: Allora, l’idea era proprio quella di non pubblicare mai niente, quindi dopo la quinta o la settima ristampa (di Filles De Mai, ndr) fatta da Marco Valenti della Toten Schwan proprio non ce la facevamo più. Abbiamo venduto non so quante migliaia di dischi ed era ora di proporlo. In fondo lo facciamo perché il pubblico vuole sempre qualcosa e lo facciamo per loro e dunque quando abbiamo avuto i nastri dell’Amplifest, che tra parentesi è un festival bellissimo al quale siamo molto legati da rapporti di amicizia molto simili ad una famiglia…
Gianna: Sono più che fratelli…
François: Più che fratelli, ed è stato un momento per mettere a punto quello sul quale stavamo lavorando in quell’istante. Storicamente rappresenta proprio un momento del gruppo.
Gianna: L’altra cosa è che io credo fortemente Putan Club sia un gruppo più che da disco da concerto. Putan Club ha senso nell’esserci, nello stare insieme a noi e capire chi siamo e come buttiamo la gente dentro. Il fatto di fare un disco: i pezzi li componiamo e li registriamo, abbiamo fatto molti dischi con altri progetti, ma il Putan Club in sé funziona dal vivo.
François: È vero che stranamente è il progetto col quale forse lavoriamo di più e col quale finora, fino a qualche anno fa, non siamo stati troppo conosciuti, perché andava da solo e siamo stati un po’ vittime di un successo di stima, ovviamente non discografico né mediatico, però così ci andava bene e così ci va bene perché abbiamo la pace. Col fatto che facciamo tutto da soli, pubblicare un disco è molto faticoso dal punto di vista della comunicazione ed è per questo che ti rompiamo le palle.
Giustamente!
François: Ci prende veramente, è ormai più di un mese e mezzo che siamo in questa fase, chiamare e scrivere a tutti i giornalisti che ci piacciono, dall’Indonesia a Milano fino a Los Angeles, e non vorremmo farlo sempre. Però d’altra parte, siccome abbiamo deciso di far stampare questo disco, dobbiamo venderlo perché non è giusto che l’etichetta discografica (oggi un’etichetta è un’impresa suicida) abbia il rischio di copie invendute. Siamo abbastanza sicuri che si esauriranno tutte, però bisogna impegnarsi.
Visto cha abbiamo citato mia figlia, vi faccio una domanda che mi pone sempre quando le faccio ascoltare un nuovo artista. Sono famosi? Hanno successo? Da quanto mi avete detto sembrerebbe di sì?
François: Nooooo! Sai, per me famoso è quando tua figlia, o mia madre (perché mia madre mi fa la medesima domanda), si sentono chiedere, ad esempio: “Conosci gli Slint?” e rispondono ovviamente: “No, non sono famosi!”. Ecco, siamo più o meno lì!
C’è da lavorare ancora, diciamo…
Gianna: Ma anche no! Ma anche no!
In un mondo migliore le madri conoscerebbero Slint e Putan Club. Sarebbe bello, no?
Gianna: Sì…
François: Beh, mia madre trenta o quaranta anni fa conosceva i Can perché comunque erano pubblicati da una major e dunque quando le major si mettevano a far cose belle riuscivano anche a far loro avere un certo successo. Anche Captain Beefheart è un nome che mia madre può ricordare! Giravano sulla radio nazionale perché c’era una promozione con determinati investimenti da parte della major, quindi si facevano sentire.
Avete detto una cosa molto interessante: siete sicuri che i dischi si venderanno tutti. Io trovo che ci siano moltissime etichette che però i dischi non li vendono e ingrossano con bellissimi propositi delle case molto capienti.
Gianna: Ormai l’unico modo per vendere dischi oggigiorno, a meno che tu non sia Jennifer Lopez, è suonare, fare date, fare molti concerti per poi poter vendere al pubblico al banchetto. I concerti a noi non mancano.
François: Sì è così che vendiamo i dischi e siamo sicuri di venderne di più rispetto a Marco, che ha rischiato investendo dei soldi ma che cp,imqie se li ritroverà entro giugno. Entro giugno avremo venduto tutto, ne siamo certi. L’abbiamo visto in tutti questi anni, partiamo con 500 copie e dopo due mesi di tour sono già finite. Poi chiamiamo Marco che ce li spedisce, oppure li ristampa.
Questa è una buona cosa, ma tornando ad Oporto: voi siete partiti già intenzionati a registrare la performance o vi registrate abitualmente e avete capito che in questo caso avrebbe reso come pubblicazione? Quando avete pensato di fare questa cosa e com’è successa?
François: Ogni tanto, perché giriamo con il nostro mixer, registriamo tutto. Poi in questo caso eravamo a Porto dove abita pure José, il fonico degli Ifriqiyya Electrique. Lui si è proposto per occuparsi della cosa e così è andata. Un po’ un caso, ma anche un po’ no, perché poter fare un sodalizio con Amplificasom, la società che produce l’Amplifest, voleva dire lavorare con persone veramente speciali, apertissime, gente che ascolta di tutto. Pur essendo un festival basato su musiche metal e avant-metal, cose comunque un po’ definite però, però…
Devo dirvi che mi ha sorpreso sapervi all’interno di un festival del genere, vedendo comunque negli anni i gruppi che sono stati coinvolti. Voi durante la vostra permanenza vi siete innamorati di qualcosa che avete visto e sentito e che magari non conoscevate? C’è stato un momento di estasi da concerto oppure no?
François: L’estasi e l’elevazione ci sono ad ogni concerto, sennò avremmo smesso. In fondo quello che cerchiamo è un po’ di onanismo artistico rispetto all’elevarci, perché odiamo la parola trance in concerto, e lì ad Oporto sapevamo di ritrovare qualcosa, perché forse siamo il gruppo non portoghese che in Portogallo ha suonato di più. Di solito i gruppi fanno date a Lisbona, Oporto, attaccandoci forse una terza. Noi in Portogallo facciamo dalle sette alle dodici date, dal nord al sud…
Gianna: … con gli stessi gruppi portoghesi che ci chiedevano come diavolo facciamo ad organizzare tutte quelle date.
François: Il Portogallo ci piace perché ha un pubblico strano, un pubblico cool, aperto a 360 gradi. Quando ci suoniamo con progetti più world, in festival anche molto grossi dedicati a questo tipo di musiche, c’è sempre una parte del pubblico che è pro Putan Club, anche una frangia di metallari che arriva e si ascolta la musica dell’Azerbaijan con due corde come altre cose… questo ci piace, un pubblico strano, molto aperto, un po’ come quello che troviamo nei paesi baltici, che non hanno steccati musicali. Quello ci fa sempre piacere!
Intendevo se durante la vostra permanenza all’Amplifest avete visto o sentito qualcosa che vi ha particolarmente emozionato, colpito od ispirato?
François: Era la prima volta che vedevamo i Buñuel, concerto strepitoso musicalmente, orribile da vedere perché è una fiera del testosterone, ti faccio vedere come sono maschio! Questo mi fa orrore, noi poi abbiamo anche lavorato un bel po’ con Eugene S. Robinson e questo è il suo lato maschio esacerbato. Poi in realtà non è così, lui è un intellettuale che legge sempre, lo trovi sempre concentrato sui suoi testi mentre in questi casi gli dà piacere, pensa ci sia il bisogno di esaltare il pubblico in maniera orribile, però la musica… wow! Per me è stato il gruppo più esaltante, per il lavoro di Xabier Iriondo e degli altri musicisti, per tutto l’insieme.
Gianna: Bel gruppo, veramente un bel gruppo! Poi vedere il pubblico col sorriso, vedere gente ultrarilassata che passa da un palco all’altro e dal merchandising chiacchierando con gli organizzatori ed i gruppi, veramente un lato umano che a me fa impazzire.
François: Altri gruppi che abbiamo apprezzato negli anni (non ricordo esattamente in quali edizioni perché ci abbiamo suonato più volte): gli Amenra erano molto belli, magnifici i Godflesh, poi Justin Broadrick è un amico ed è stato bello rivederlo lì!
Mi piace che la vostra musica sia così indefinita. Vi troverei la coppia perfetta alla quale dare in mano una direzione artistica di un festival, perché immagino che il vostro tipo di ascolti sia altrettanto aperto. Vi piacerebbe, se ve la offrissero, come esperienza?
François: Beh sì, io ho avuto un festival per sette anni (Trasporti Marittimi).
Gianna: Io ho avuto un club, i Sotterranei.
François: Andava bene ma si doveva scegliere fra suonare o fare il festival. Fare programmazione è un lavoro magnifico che mi è piaciuto, ma…
E poi tu come programmatore non vedi nulla, stai sempre a correre! L’idea di mettere qualcosa insieme è incredibile.
Gianna: Quel che mi faceva stare bene quando avevo il club era vedere gli effetti positivi dell’offerta musicale, dell’offerta culturale sulla società, la piccola società che ci gravitava intorno. Al di là poi di aver conosciuto gente incredibile…
François: I rari festival che mi piacciono sono quelli che sono andati oltre. Quel che mi piaceva fare all’epoca, si parla di più di venti anni fa, era mescolare tutto quello che mi andava a genio, da Keiji Haino alla classica contemporanea e al gruppo avant hardcore basco e cose così. Quello è il bello e per questo uno dei miei festival preferiti è il GEZI ad Amsterdam, che è una cosa fantastica dove in una settimana trovi tutto questo, dal jazz all’hardcore metal, tutto fatto con gusto, e i tre programmatori sono bravissimi ad organizzare e a delegare la programmazione, creando un circuito bellissimo. Un’altra splendida cosa è quella che fa il Moers in Germania (la prossima edizione è in programma dal 6 al 9 giugno del 2025): ti prendono come gruppo e poi, dopo due mesi, ti danno un budget per invitare altri gruppi.
Gianna: Hai proprio un foglio Excel con gli slot liberi e il budget e devi trovare gli incastri!
François: È in mano al giro dei Faust! ed è sempre bellissimo…
Mi organizzerò appena mia figlia sarà un po’ più grandicella!
Gianna: Il Moers tra l’altro per tua figlia andrebbe benissimo, è nel verde, una situazione stupenda!
François: Vero, se dovessi andarci, ma anche al Le Guess Who?, faccelo sapere, ti faremo avere degli inviti, perché cercano sempre di avere quante più connessioni possibili con i media esteri. Un altro bellissimo, più sulla musica world, è il FMM a Sines, in Portogallo, nel castello di Vasco de Gama. Carlos, il programmatore, è uno che si prende dei rischi. La prima volta che ci chiamò lo fece con dodici elementi dell’orchestra della Rachida e non ci aveva mai visti, ma ci prese alla cieca perché gli piacevamo. La programmazione è molto bizzarra, è alla mano ma si prende dei rischi pazzeschi. Per la famiglia poi è bellissimo, è al bordo del mare, fa caldo, villaggio bellissimo e gente fantastica!
Proporrò alla famiglia nuove trasferte, allora! Ascoltando il disco mi ha colpito tantissimo un brano, “Galoo Sahara Laleet El Aeed”, che mi è sembrato un incrocio fra voci arcaiche, rock distorto e un dancefloor oscuro, per finire nel western. Cos’è questa canzone?
François: È un pezzo che esce dai rituali che studiamo, è un pezzo di un rituale sahariano di esorcismo, che si ritrova anche in alcune parti del Maghreb, tutto riarrangiato in diverse chiavi con dei break e dei cambi, però mettendo tutti gli elementi di questo pezzo, di questo rituale, comprimendoli, ne esce comunque una roba da dieci minuti!
Quando rielaborate questi suoni partendo da questo tipo di realtà, poi avete un feddback da parte degli “attori” originari? Come prendono queste elaborazioni?
Gianna: All’inizio dicono di non essere loro! “È impossibile, non abbiamo fatto questo!”. Quel che facciamo allora è abbassare nel mixer i nostri arrangiamenti e lasciare le loro tracce e allora “cazzo, siamo noi!”, poi François aggiunge “cazzo, siamo noi più voi!”.
François: Per loro è magia perché sono cose che già fanno in maniera ultra intensa e ultra violenta e noi le prendiamo e andiamo oltre. L’idea è di vedere dov’è la modernità in questa musica arcaica e c’è sempre. Il linguaggio guarda al dub ma anche al pogo, al fatto di toccarsi e di spingersi, tantissimo anche alla techno! Per loro è no per i primi cinque minuti per poi accettare…
Gianna: Non è il no, è il non siamo noi!
È il non risconoscersi, chiaro!
Gianna: Non hanno mai risposto “non mi piace” o “è irrispettoso”, non ci saremmo mai azzardati ad avanzare nel caso la risposta fosse stata quella ovviamente…
Nell’ultimo anno, in Italia (parlo dalla Svizzera ma in questo caso il contesto che osservo è quello dello Stivale), trovo che sempre di più ci siano musicisti, etichette e situazioni che hanno ripreso questo sfruttare la musica per parlare di temi, situazioni e del presente con uno sguardo critico, che era pratica classica quando ero più giovane ma che negli ultimi anni era abbastanza scomparsa. Da parte dei musicisti interessati faccio però fatica a percepire la risposta del pubblico. In quel che avete fatto e quel che fate vedo una linea politica. Che effetto ha sul vostro pubblico?
François: Considera che il nostro pubblico già è strano, va dai 18 ai 26 anni ma ci sono anche i vecchi colonnelli che provano a tenere duro, provando a contare sulle loro dita mentre tutti intorno ballano e si divertono con noi. Questo perché noi suoniamo separati ai due lati opposti della stanza, Gianna e io siamo a 200 metri di distanza ed in mezzo ci sono 3 o 4000 persone. Queste cose le abbiamo imparate dai rituali e ci piace desacralizzare quest’immagine del musicista cagone sopra al palco. Per il lato politico penso che lo sentano dalla musica, ma soprattutto alla fine del concerto. Dopo il bis immediatamente spieghiamo sempre in una maniera un po’ stramba e un po’ anomala come facciamo e alle volte si crea un’agorà per venti minuti o mezz’ora fra domande e spiegazioni. Spesso la gente descrive concerto e musica come esperienze divertenti e incredibili, godendo della nostra stranezza, però il discorso del parlare insieme salva le vite. Si rendono conto di non essere soli e di potersi relazionare ad altre persone con un punto di vista indipendente e che organizzare la propria vita in un’altra maniera è possibile. All’inizio non lo facevamo così, lo facevamo per spiegare perché non avevamo i dischi, non avendo voluto farne per i primi cinque anni. Lo spiegavamo e poi pian piano è diventata un’abitudine parlare e spiegare senza essere i rompipalle e i sapientoni.
Gianna: I maestrini del cazzo!
François: Questo vediamo che è politico, nel senso che aiuta la gente e di nuovo tocchiamo il perché dei rituali che studiamo, perché hanno un ruolo sociale. In fondo tutto questo è il ruolo dell’arte, della cultura, serve a non suicidarsi. Dopo ognuno può far quel che vuole, parlarci attorno in maniera molto errata, ma quando ci sentiamo depressi andiamo per musei e riusciamo a piangere davanti a delle tele, perché è un aiuto. Credo che la gente questo l’abbia dimenticato, o peggio, non lo sappia più, è diverso. Non sono stupidi, ma soltanto ultra formattati da tutto quello che c’è. Non invidio mia figlia che ha 24 anni o la tua che ne ha 9, perché il mondo col quale devono confrontarsi è una roba enorme, era molto meglio quando era piccolo, con l’informazione che girava male, avevi qualche informazione musicale e politica e pensavi che il mondo finisse lì. Non era corretto ovviamente ma…
Certamente! Domanda finale. Vi intervisto per una webzine chiamata The New Noise, il nuovo rumore. C’è qual è il nuovo rumore attuale che è interessante?
François: Musicalmente? Tutto quello che non sappiamo e che ci interpella, tantissimo. Ci piace tantissimo studiare, dissezionare le cose, è tutto un lavoro intellettuale assurdo ma molto carino. Nel rock pochissime cose perché ci mettiamo ad analizzare come delle merde perdendone il senso. Negli ultimi cinque anni direi i Big|Brave, questa maniera di suonare e di comporre con il silenzio che mi è piaciuta tantissimo, per una violenza bella tornita.
Gianna: Dimmi se rimango nel contesto della domanda o se sbrodo, però anche le ricerche che facciamo non sono fatte solo per cercare di capire come altra gente possa vivere lo stesso stato di elevazione, ma la cosa che ci affascina e a me emoziona è vedere come un piccolo nucleo possa fare cerchio intorno ad una singola persona che sta male e montare su un rituale di possessione che possa permettere a questa persona malata di star meglio e di guarire, di tirar fuori tutta la merda che ha in corpo. Questo mi dà speranza. Io non sono pro psichiatri e psicologi però oggi c’è la tendenza a non parlare più con l’amico e vedere che c’è ancora la possibilità di poter dire sto male avendo gente intorno che ti supporta, questo mi da speranza. Questo è un bel rumore.
François: È di nuovo il ruolo sociale dell’arte, perché quando andiamo in fondo all’Asia od all’Africa per studiare e per stabilire delle connessioni non è mai per cercare una cartolina o fotografare quel che succede… due coglioni!
Gianna: Una delle cose che più mi piace di quando suoniamo, che succede quasi ogni sera e che mi fa dire: “ok, il nostro l’abbiamo fatto” è vedere la gente che sorride, noi facciamo musica solare e di pace, in realtà. Ogni volta che succede Gianna è felice.
François: La gente dice “Non è assolutamente musica che mi piace e che ascolto, però vi adoro!” e comprano il disco.
Gianna: Un’ultima cosa, poi la smetto di parlare, la tournée che ho adorato di più fare è stata quella che abbiamo montato durante il covid nell’estate del 2020. Io e François abbiam caricato la macchina e abbiamo suonato in case, in piscine svuotate, in sale prove putride, dal sud dell’Italia alla Francia, alla Spagna ed al Portogallo e in quelle date lì ogni sera c’era gente con le lacrime agli occhi che veniva a dirci “Grazie, mi sento vivo!” e là, wow…
François: Sono state 60 date speciali, dove non volevamo essere pagati perché non era il caso e dove comunque siamo tornati a casa con più soldi del solito perchê la gente voleva dare.
Gianna: La gente capiva che tutto era possibile, che si poteva tornare.
François: Che si poteva reinventare quel che avevamo fallito finora!