PRURIENT, Rainbow Mirror

Dominick Fernow festeggia i vent’anni dal suo esordio come Prurient con un album monstre: più di tre ore di musica, quattordici lunghe tracce distribuite su quattro cd o, addirittura, sette vinili. Come nelle sue prime performance dal vivo, la line up si compone di tre elementi, in questo caso Jim Mroz (Lussuria) e Matt Folden (Dual Action), entrambi habitué di Hospital Productions, l’etichetta di Fernow.

A dispetto del minutaggio abbondante diciamo subito che la tensione e l’attenzione rimangono alte e i momenti di stanca in Rainbow Mirror risultano in fin dei conti pochi (forse rimane eccessiva la mezz’ora, divisa in due parti, di “Buddha Strangled In Vines”, sempre giocata attorno allo stesso tema di synth); il nuovo album lascia intravedere una bella evoluzione in quel discorso musicale intrapreso già con l’ottimo Frozen Niagara Falls e adesso portato a un punto di svolta, per cui molte asperità sono state limate per lasciare il posto a uno stile immersivo e meno aggressivo, ipnotico piuttosto che scioccante. Ne viene fuori un ambient fosco (Fernow lo vende come “doom electronics”) ravvivato talora da lievi scosse telluriche e sciami sismici, ritmi meccanici che spesso si fanno tribali e detriti sonori a pioggia: quelle grida lancinanti, tratto distintivo della musica di Prurient, cessano del tutto e la voce compare solo per sparuti vocalizzi o brutalmente processata (“Naturecum”). I synth ricalcano suggestioni da film horror, pare di sentire un Carpenter totalmente disorientato dalle aritmie in corso d’opera (“April Fool’s Day Aspect Sinister” e “Buddha Strangled In Vines”); altrove le sonorità ammiccano all’oriente (“Cruel Worlds” e “Blue Kimono Over Corpse”) o delineano paesaggio futuristici, contemplati però attraverso un vetro smerigliato (“Walking On Dehydrated Coral”).

Il Prurient che conoscevamo sembra fare capolino solo in zona Cesarini, nelle due bonus track contenute nel quarto cd: noise angosciato e nero come la pece ma sempre privo del contributo vocale. Per il resto, sebbene sibili venefici e bordate di synth affilati come rasoi sembrino volerci ricordare i tempi di Cocaine Death, in generale possiamo dire che le atrocità sonore a cui Prurient ci aveva abituato si sono ridotte al minimo sindacale. Le note del booklet contenuto nel disco di due anni fa consigliavano, in un accesso di insano romanticismo, di ascoltare l’album di notte, mentre la neve cade silenziosa sotto la luce dei lampioni: qui l’unico suggerimento sensato è un nichilistico ripiegamento su se stessi, nel buio più totale.