Primavera Sound 2017

Barcellona, vari luoghi.

We’ve to go back, Kate, We’ve to go back.

L’urlo straziante di Jack Shephard in una delle puntate-simbolo della serie LOST è un po’ il mood di chiunque sia stato, almeno una volta, al Primavera Sound.

È difficile spiegare cosa si prova a partecipare a chi non è mai andato là: sarà la location, sarà il dover correre per oltre 2 km da un palco all’altro, saranno le oltre 200.000 persone che quest’anno hanno partecipato ma, che lo si ami o meno, il Primavera è sempre un evento unico, così come è unica la sua storia.

Era il 2001 quando il primo artista mise piede sul palco di quello che sarebbe diventato uno dei più importanti festival musicali del mondo. Ci si trovava al Poble Espanyol, un museo all’aria aperta situato sulla collina Montjuic di Barcellona, costruito in occasione dell’Esposizione Universale del 1929. Iniziò dunque come un piccolo appuntamento di musica elettronica che contava una manciata di djs, ma nel corso di qualche anno avrebbe saputo reinventarsi e crescere, ampliando il proprio raggio d’azione sia sul tessuto cittadino, sia per quanto riguarda i generi proposti, diventando un punto di passaggio obbligato per ogni esponente della scena alternativa, suonasse indie rock o elettronica.
Il 2005 segna un punto di svolta in questo senso: il festival si sposta al Parc del Fòrum, a pochi metri dal mare, e il cartellone inizia a riempirsi di nomi che hanno fatto la storia, da Iggy Pop ai Sonic Youth. Il mix vincente del Primavera Sound prende corpo: dare spazio a più generi, affiancare ai gruppi del momento le vecchie glorie, offrire ai propri spettatori un’esperienza unica per varietà e per la location suggestiva, specie al tramonto (e all’alba, per chi rimane ogni sera fino alla fine della programmazione).

L’edizione del 2017 è tornata in qualche modo alle origini, dando molto più spazio all’elettronica rispetto al passato (del resto, non siamo più ai tempi di “Tonight: Franz Ferdinand”), come dimostrato  dal fatto che l’area della manifestazione è quasi raddoppiata per dare spazio al Primavera Bits, vero e proprio festival nel festival che vedrà alternarsi su due palchi live e dj set per un totale di oltre 62 eventi e 18 ore al giorno di musica (alla consolle grandi nomi del settore, come John Talabot o Ben Ufo).

Se far meglio dell’anno scorso pareva difficile, lo staff del Primavera sembra aver centrato il bersaglio, con un’organizzazione che lascerà ben poco spazio agli intoppi e tante novità, di cui parleremo più avanti.

Mancavo da ben quattro anni, da quando ho visto uno dei concerti più belli della mia vita: i Dead Can Dance con alle spalle il mare e il temporale,  mentre gran parte della platea piangeva sulle note di “Children Of The Sun”. E anche quest’anno, come l’ultima volta, il festival sarà una questione di scelte: sì, perché se ti lanci nel pogo coi Descendents che fanno il verso a Trump trasformando “Coffee Mug” in “Cofveve Mug”, ti perdi Mac DeMarco nudo; se vai a vedere l’incredibile spettacolo della diva Grace Jones che chiede della cocaina al pubblico perché vedo che qui non ci sono problemi con l’erba ma alla mia età serve qualcosa di più forte, ti perdi il singalong su “Everything Flows” dei Teenage Fanclub.

Che fare, dunque?

Non ti resta che correre. Cercherò di vedere più performance possibili durante i tre giorni di festival, abbandonando qualche esibizione a metà per correre altrove: del resto, i palchi sono “solo” 6, senza contare l’auditorium, il cinema e l’area del Primavera Bits.
Telefono in mano per cercare su setlist.fm le scalette degli artisti per decidere se mi interessano di più i pezzi iniziali o finali, scarpe comode ed energy drink nello zaino: questo è il kit di sopravvivenza al festival.

Inauguro il primo giorno con i canadesi Broken Social Scene: non che siano proprio nelle mie corde, ma l’inconfondibile sound indie-rock che ha fatto la storia è il sottofondo ideale per iniziare a pianificare il mio programma della serata, specie quando inaspettatamente parte “Ibi Dreams Of Pavement”, con un frammento da “Total Eclipse Of The Heart” di Bonnie Tyler che mi fa urlare io stavo cor Libbano.

Mi sposto rapidamente verso il palco Primavera per vedere i Gojira, perdendomi Romare al Bits: prima scelta sbagliata della giornata. Forse crescendo i miei gusti sono cambiati ma, nonostante la band di Bayonne proponga alcuni dei pezzi storici, iniziando con “The Heaviest Matter Of The Universe”, il suono impastato e confusionario mi porta ad abbandonare la performance per dirigermi al palco Pitchfork, dove vedo i BADBADBADNOTGOOD, formazione canadese che non conoscevo. Il trio propone un mix di free jazz vagamente pop, con però un’anima ondeggiante e malinconica che abbraccia sonorità vicine all’hip hop della black music americana. Una bella scoperta.

Death Grips, foto di Garbine Irizar

Sono di nuovo al palco Primavera e capisco che c’è qualcosa che non va con i suoni: avevo già incontrato i Death Grips e, sebbene creda che attorno al gruppo si sia creato un hype esagerato, rimango abbastanza delusa dal loro live, anche se MC Ride sa il fatto suo e si continua a dimostrare un vero e proprio animale da palco. Il suono continua ad essere troppo impastato e, dopo i primi sei pezzi, tra i quali “System Blower” e l’indissolubile “No Love”, me ne vado verso uno dei prosceni principali, il Mango, per vedere gli Slayer.

Slayer, foto di Sergio Albert

Arrivo in tempo per “Seasons In The Abyss” e sono certa che sia i fan, sia la schiera di curiosi che hanno partecipato all’esibizione abbiano pensato: “Forza metal”. Certo, la band di Los Angeles poteva essere considerata, in qualche modo, fuori contesto. Ma è proprio qui che sta la forza della manifestazione: la capacità di aggregare stili diversi e di stupire gli stessi musicisti, con Tom Araya quasi imbarazzato che dice forse non siete abituati a questo tipo di sonorità, ma speriamo vi piacciano. Questa è una canzone d’amore: si chiama “Dead Skin Mask”. Ed è proprio lì che capisci quanto una leggenda possa essere grande, nonostante i cambi di formazione che hanno fatto torcere il naso a molti. I quattro concludono con la tripletta “Raining Blood”, “South Of Heaven” e una “Angel Of Death” che mi fa perdere totalmente la voce ma “the show must go on” e mi tocca correre verso uno dei live più attesi, quello di Aphex Twin.

Mi aspettavo di più dal musicista britannico. Considero il suo “Selected Ambient Works 85-92” uno dei dischi più importanti della mia vita, un album maestoso, universalmente riconosciuto come un punto di svolta per la musica ambient. Sul sito del Primavera c’era una semplice bio, che non dava chiarimenti sulla tipologia di performance che ci saremmo dovuti aspettare. Il set proposto Richard D. James non ne ripercorre la carriera, come avevo sperato ma, piuttosto, è una selecta di brani riproposti à la Aphex Twin come “WARSAVA” di Chino Amobi e “Illumination” e “Intruder” di Shapednoise, ad eccezione di qualche pezzo estratto da Syro.
Il live è comunque straniante e ripercorre l’estetica dell’artista: un ritmo propulsivo, un rumore sconnesso sostenuto da esplosioni insolite di suoni alieni, melodie strane e oscure. Il tutto accompagnato da dei live visual creati a partire da filmati in tempo reale degli spettatori, ai quali veniva sovrapposto il viso di Aphex Twin fino a piegare i volti e i corpi in immagini che sembravano uscite da un quadro di Lynch.

Abbandono dopo circa un’ora il set, faccio in tempo a vedere due pezzi dei Damned e mi dirigo di nuovo al Pitchfork, dove ad aspettarmi ci sono i Converge. Un live molto intenso, al punto che la batteria di Koller si ribalta, dando l’occasione a Bannon di dirci ancora una volta che il nostro unico nemico siamo noi stessi, ripercorrendo quello che è il leitmotiv di alcuni dei loro brani più famosi, come “No Heroes” e “You Fail Me”. L’esibizione si conclude alle 3 del mattino, con l’aria gelata che emerge dal mare, mentre la band di Salem ci regala gli emozionanti nove minuti di “Jane Doe”.

Converge, foto di Dani Canto

La giornata non è ancora finita per me ed è a questo punto che assisto a uno dei live più divertenti di questa serata: i principi dell’industrial canadese, meglio conosciuti come Skinny Puppy, non si lasciano intimidire dall’orario quasi mattutino e ripercorrono tutta la loro carriera con pezzi che vanno da “Jahya” ad “Assimilate”, regalandoci uno spettacolo dai ritmi sostenuti che, come sono soliti fare, sfiora il no sense: al centro c’è un grosso triangolo al neon, il cantante è ricoperto di bende e uno strano individuo vestito da vichingo gli conficca nella carne delle siringhe lunghe una cinquantina di cm. Non capisco se sono troppo stanca e inizio ad avere le visioni o se quello che vedo è una strana realtà, ma attorno a me tutti ridono e si muovono a tempo, piacevolmente divertiti.

Faccio in tempo a vedere un solo pezzo di Tycho, “Division”, che è meglio di niente ed è il sottofondo giusto per abbandonare il Parc del Forum fino al giorno successivo.

Alla fermata ci sono decine di persone e aspettiamo per diverse ore che passi un bus. Scopriremo poi solo il giorno successivo che questa è stata spostata più vicino al festival ma, del resto, dopo una giornata così, non vedevo l’ora di fare altri 10 chilometri a piedi per raggiungere la fermata della metro.

Il secondo giorno è quello delle sorprese: forse per ovviare alla defezione dell’ultimo minuto di Frank Ocean, l’organizzazione del festival ha messo su l’Unexpected Primavera, una serie di concerti “a sorpresa”, della quale si viene avvisati solo qualche minuto prima tramite l’app del festival. Il primo giorno mi sono persa un live degli Arcade Fire ma il secondo riesco a vedere la presentazione del nuovo disco dei Mogwai, Every Country’s Sun. Devo dire che non mi entusiasma particolarmente, a differenza di Rave Tapes del 2014, album che aveva segnato in un certo senso una svolta per la band scozzese: il successivo Atomic e quest’ultimo mi sembrano un po’ più grigi, quasi una brutta copia dei tempi d’oro.

Me ne vado in tempo per vedere l’ultimo pezzo di Sampha, “(No one Knows Me) Like The Piano” che lascia il pubblico senza parole per l’intensità della performance. Non sono proprio una fan del genere, ma il ragazzo sembra piuttosto emozionato e, considerando la sfilza di “big” che fanno a gara per collaborare con lui (uno a caso: Kanye West), sono certa che ne sentiremo parlare per parecchio.

Descendents, foto di Nuria Rius

Dopo dieci minuti mi ritrovo circondata da “hardcore kids” per l’esibizione dei Descendents, con Milo che inizia lo show con ciao, noi siamo americani e siamo vecchi prima di far impazzire la folla con “Everything Sux” che fa esplodere un pogo divertente e appassionato. La band californiana propone un set che ripercorre tutta la sua carriera fino al recente Hypercaffium Spazzinate. I cori della gente accompagnano il gruppo per tutta la durata dell’esibizione, con Milo in grande forma che si lancia sulla folla durante “I Don’t Want To Grow Up”.

Passo dal punk alle atmosfere avvolgenti di una delle mie band preferite, gli Swans. La scaletta è la stessa dello scorso novembre quando avevano incantato il Club To Club. Il live inizia con “The Knot”, rendendoci inconsapevoli protagonisti di un rituale avvolgente e penetrante. La musica degli Swans non è per tutti: le movenze da sciamano di Gira, i volumi quasi disturbanti e la volontà di trasformare un live in un’esperienza quasi mistica fanno sì che il tutto accada su palchi più piccoli, cosa che non mi dispiace. Questa sarà probabilmente l’ultima volta che vedrò questa formazione perché il Principe del noise ha dichiarato di voler mettere la parola fine a quest’idea di band. Un peccato, perché i musicisti, nel corso degli anni, sono diventati sempre più affiatati, lasciando a Gira il ruolo di direttore d’orchestra. I loro occhi sono tutti puntati su di lui, sulle movenze delle sue dita con le quali sembra poter prolungarsi e suonare tutti gli altri strumenti o, almeno, a guidarli. Sollevo il cappuccio della mia felpa e mi lascio avvolgere da quel suono che sì, non è rivoluzionario ma è unico e inesorabile. Un gruppo di giapponesi davanti a me prende degli acidi mentre tutti attorno hanno già chiuso gli occhi.
Mi allontano sulle note di “The Glowing Man” per vedere gli XX.

È venerdì sera, ci sono decine di migliaia di persone e il palco del trio britannico è a 2 km da dove mi trovo. Inizio a correre veloce e al mio arrivo all’Heineken trovo un’atmosfera da Coachella; ragazze in costume con corone di fiori in testa, giovanissimi visibilmente fatti, braccialetti e collane al neon. Sono in tempo per sentire alcuni dei pezzi storici: “On Hold”, “Intro” e “Angels”. Tutti attorno a me ballano ma faccio fatica a farmi trasportare anche se la band, inizialmente un po’ goffa, nel corso degli anni ha acquisito maggiore consapevolezza, sapendo gestire meglio la sua presenza sul palco.

Poco dopo, inizia il live dei Run The Jewels.

Run The Jewels, foto di Sergio Albert

Non so dire quante decine di migliaia di persone ci siano attorno a me in questo momento. Dopo una breve intro sulle note di “We’re The Champions” dei Queen, il super duo hip-hop parte con alcune delle sue migliori hit come “Talk To Me” e “Legend Has It”. In questo momento stiamo tutti ballando, i due si comportano da veri e propri “maestri cerimoniali”, mantenendo un flow schietto e fluido che, purtroppo, si interrompe per un guasto tecnico su “Blockbuster Night”. Rimango ancora per un paio di pezzi, giusto in tempo per sentire “Nobody Speak”, brano nato in collaborazione con Dj Shadow, e mi sposto di nuovo dall’altra parte del parco per vedere gli Sleaford Mods.

Sebbene io adori  il rap un po’ cazzone e scanzonato dei Run The Jewels, devo dire che con il duo di Nottingham siamo su un altro livello. Jason Williamson interrompe più volte il live per parlare della situazione politica inglese e mondiale, un discorso che viene reso ancora più drammatico dopo la notizia dell’attentato di Londra. Ciò che amo del duo è quello stile a metà tra la rabbia punk dei Dead Kennedys e lo stile dei Wu-Tang Clan, le basi minimali e velocissime, ma estremamente curate. La loro esibizione entra di buon diritto tra i miei live preferiti di questa edizione del festival.

Vedo qualche pezzo dei Front 242 ma sono decisamente troppo per i miei gusti. Mi sembra di essere in una discoteca crucca nel 1986, circondata da ubriachi e da persone che si muovono fuori tempo.

Flying Lotus, foto di Nuria Rius

Fortunatamente alle 3 del mattino si affaccia on stage Flying Lotus. Descrivere il live del musicista statunitense è quasi impossibile. I pezzi passano dal main theme di “Twin Peaks” a quelli di “Ghost in The Shell” e “Final Fantasy VII” per poi spostarsi su brani come “Eyes Above”, con la parte vocale di Kendrick Lamar. Viene poi presentato il main theme di “Kuso”, il film di prossima uscita diretto da Steven Ellison in persona. Sullo schermo visual in AR avvolgono il pubblico, completamente in estasi.

E un’altra giornata l’abbiamo portata a casa.

Stranamente, sabato è la più tranquilla delle tre per me. Forse perché non c’è molto a interessarmi, forse perché dopo aver fatto un’ora di fila per vedere Thurstone Moore all’hidden stage dell’Heineken, dove stiamo stati lasciati tutti fuori, mi ha spazientita non poco.

Rimango piacevolmente stupita da Junun. Certo, non è nelle mie corde, anche se il progetto, specie nella sua versione documentaristica girata da Paul Thomas Anderson, è decisamente interessante. Jhonny Greenwood la fa da padrone, circondato dai componenti dell’orchestra indiana Rajasthan Express e dall’iraniano Shye Ben Tzur, alla voce. La cosa divertente è che i musicisti salgono tutti sul palco per provare insieme prima dell’inizio del vero e proprio concerto, ma l’energia e la voglia di suonare sono così forti da coinvolgere tutto il pubblico, portando il fonico a far iniziare tutto una decina di minuti prima del previsto.

Ascolto poi qualche pezzo del tributo a David Bowie di Seu Jorge, ma il mio amore per il Duca bianco non mi lascia comprendere a fondo questo tipo di celebrazione, anche se tutti cantano in coro i brani più famosi dell’artista inglese.

Sleep, foto di Nuria Rius

Il muro di amplificatori degli Sleep mi fa riprendere fiducia nell’umanità. La storica stoner band californiana offre al pubblico esattamente ciò che si aspetta: pochi pezzi eseguiti magistralmente, a petto nudo, col vento tra le barbe e i capelli, i volumi insostenibili che apprezziamo scuotendo le teste a tempo e l’apice “Dragonaut” che, nonostante non si presti esattamente al pogo, scatena i corpi dei presenti che oscillano violentemente scontrandosi uno con l’altro.

Vedo di sfuggita qualche pezzo di King Krule e mi chiedo come possa uscire quella voce da un corpo così secco e poi decido di sedermi in riva al mare, godendomi gli Japandroids da lontano.

Sono abbastanza stanca e decido di abbandonare senza troppe pretese il terzo giorno di festival.

La domenica è dedicata ai live che si concentrano in location esterne, dando la possibilità a diverse aree della città di animarsi. Ho quindi concluso il mio Primavera con una delle band storiche, presenti in quasi tutte le edizioni: gli Shellac. La Sala Apolo è gremita di gente e, nonostante la scaletta sia pressoché la stessa da anni, il pubblico apprezza, saltando e gridando i pezzi della band. “Steady As She Goes” è una delle mie canzoni preferite di sempre e il trio capitanato da Albini mi regala anche “Prayer To God”, esattamente il pezzo che più di addice al mio umore delle ultime settimane.

Anche quest’anno il Primavera è finito, con tutto ciò che c’è di bello, con tutti i suoi intoppi, con tutta la gente che è lì per caso o che si è mossa da un altro continente, con le vesciche ai piedi e l’ansia di non svegliarsi in tempo per prendere l’aereo del ritorno.

Anche quest’anno il Primavera è finito e “We’ve to go back, Kate”.