Primavera Sound 2015

Ride

Barcellona, 28-30 maggio 2015. La foto dei Ride è di Eric Pamies, quelle di Caribou e Jungle di Xarlene. Provengono tutte dal sito ufficiale. 

Raccontare un festival come il Primavera Sound non è mai impresa semplice: già in un singolo concerto c’è una percentuale di empatia notevole, figuriamoci in un’esperienza di cinque giorni in cui ci si ritrova catapultati quasi in un mondo a parte, un mondo dove il minimo comun denominatore dei 175000 “abitanti” del Parc del Forum è la musica dal vivo, sulla quale riversano curiosità ed entusiasmo. Dunque come si può descrivere tutto questo? Ci sarebbe un metodo classico, ma forse troppo piatto: un’ordinata cronaca dei live visti. Quindi, pure per non cadere nell’errore della ripetitività, provo a riassumere e concentrare i cinque giorni passati a Barcellona attraverso un racconto disordinato, forse a tratti un po’ caotico, ma con il tentativo di mettere in risalto quel comune sentire che si è respirato in gran parte del concerti visti. Ecco dunque una serie sparsa di “diapositive musicali” di questo Primavera Sound numero 15.

I Ride, sin dalle prime note della loro esibizione sul palco Primavera, hanno messo a tacere tutti quelli che avevano storto il naso inizialmente, giudicandoli inidonei a fare gli headliner (che poi il concetto di headliner per la rassegna catalana è alquanto relativo, non è un caso che i nomi vengano scritti nei manifesti tutti a grandezza uguale). Partenza a razzo con una lunghissima versione di “Leave Them All Behind”: sembrano non aver perso smalto e suonano come se non ci fosse mai stata una lunghissima pausa. Andy Bell e Mark Gardner possiedono una presenza scenica notevole e la scaletta è tutta un susseguirsi di emozioni, da “Like A Daydream” passando per la clamorosa doppietta di “Taste” e “Vapour Trail”, fino alla conclusiva “Chelsea Girl”. Un pezzo di storia del brit sound concentrato in poco più di un’ora.

Per riuscire ad assistere a un concerto nell’Hidden Stage serve forza di volontà. I mille biglietti a disposizione vengono distribuiti alle 16 (orario in cui praticamente il Parc del Forum apre i battenti). L’occasione di poter rivedere i Battles, prossimi alla pubblicazione di un terzo disco, era però imperdibile. Lo scenario è quasi post-industriale, dato che il palco è situato in un garage al chiuso, in un ambiente molto raccolto. I tre di New York non tradiscono le attese. Il materiale nuovo pare funzionare bene, ma quello che stupisce in positivo è come la band riesca a creare qualcosa di nuovo pure sui brani dei primi due dischi, anche grazie alle sue indiscusse doti tecniche. Soprattutto “Atlas” infiammerà questo migliaio di spettatori. Da segnare tra gli episodi più convincenti del Primavera 2015.

American Football: un’altra reunion attesa e gradita. Il concerto è un colpo al cuore, si crea sin da subito grande empatia e il pubblico non stacca gli occhi (e le orecchie) dal gruppo nemmeno per un secondo. I pezzi del disco omonimo del ’99 conservano la loro forza emotiva anche dal vivo e si comprende in pieno come negli anni successivi questo lavoro sia stato assolutamente seminale per tantissime band.

Periodicamente, senza lasciar passare troppi anni, è quasi d’obbligo rendere visita agli Spiritualized. Tornata dopo qualche edizione, la band capitanata da Jason Pierce regala una performance emozionante e ricca di pathos. Tra i momenti da ricordare: “Lord Let It Rain On Me”, una roboante “Electricity” e la conclusiva “Walking With Jesus”, vecchio classico degli Spacemen 3.

Tra le sorprese o “quasi sorprese” sicuramente possono essere catalogati gli Sleaford Mods, che nell’ultimo anno sono cresciuti vertiginosamente in termini di popolarità. Il timore che il live possa non avere sostanza viene spazzato via dall’impatto che i due di Nottingham riescono avere in ogni momento. La sensazione è che il concetto di punk, rivisitato, nel 2015 passi anche attraverso il loro repertorio. A proposito di punk, conquistano un posto d’onore anche The Julie Ruin, formazione di Brooklyn attiva dal 2010 capitanata da Kathleen Hannah dei Bikini Kill, che continua ad avere un carisma notevole e riesce ad essere ancora credibile nel ruolo della riot girl. Le Mourn, quartetto catalano entrato l’anno scorso nell’etichetta americana Captured Tracks, sono la band più giovane del festival, ma tutto questo non si nota, dato che suonano con una padronanza impensabile per gente che non ha ancora diciott’anni, più o meno. Pixies, ma anche molto altro rock alternativo americano mescolato nel loro sound.

Jungle

Anche i Jungle sorprendono, rivelandosi assai gradevoli e a loro agio. Riescono a far ballare il pubblico con la loro commistione di soul e altre ramificazioni della musica black. Il collettivo londinese riempie la scena con ben sette elementi che favoriscono un suono pieno e caldo. I Diiv tirano fuori un bel concerto pomeridiano al Pitchfork Stage, regalando al pubblico parecchi pezzi nuovi che andranno a comporre il secondo disco in uscita a settembre. Certo, dal vivo il nuovo repertorio deve essere ancora limato, ma si sente che la sostanza c’è.

Riuscire a far ballare il pubblico ancora un po’ assonnato delle 18 al Primavera non è facile. Ma i Fumaça Preta ci riescono e pure bene, con un set altamente adrenalinico che travolge i presenti con un mix di afro-beat, psych e funk. Situazione assai più notturna qualche ora dopo per Soft Moon: ormai Luis Vasquez sembra essersi calato alla perfezione in un “industrial” di stampo Nine Inch Nails. Un set viscerale che lascia poco spazio alle melodie, ma ormai risulta ben delineato. Gli HEALTH sono una live band ormai collaudatissima (è un fatto risaputo), che riesce sempre ad aggiungere un qualcosa in più quand’è on stage: un po’ di roba del prossimo disco e molta dai precedenti fa assaggiare l’impatto forte del gruppo, che alterna chitarre corrosive a brani dal suono più elettronico.

I Movement hanno all’attivo un solo ep, ma hanno calamitato interesse su di loro. Il concerto è pertanto uno di quelli da vedere: nel tempo a disposizione il trio tesse delle basi quasi minimali tra tastiere, basso e batteria, con l’avvolgente e calda voce di Lewis Wade a occupare tutto lo spazio che resta. Quello dei Sunn O))), invece, di sicuro vince la palma di live più particolare dell’intero festival. La band ormai estremizza sempre di più la sua proposta e l’impressione è quella di una sorta di cerimonia condita da echi doom, metal e post-rock. Chi colpisce per stile ed energia è Mikal Cronin, che, giunto ormai al suo terzo album, si destreggia alla grande tra brani più stile ballata a impennate garage rock più decise.

Ogni esibizione di Mac DeMarco fa storia a sé. L’istrionico cantante e chitarrista canadese regge bene il palco principale, alternando le sue canzoni più ispirate a cover di “Yellow” dei Coldplay e di “Over And Done With” dei Proclaimers. Aggiungeteci un crowdsurfing che pare non finire mai per avere un quadro completo. Come da tradizione, Dan Deacon trasforma tutto in un’autentica festa di synth e suoni elettronici, confermando le sue doti di intrattenitore. Anche Caribou è coinvolgente, riesce a smuovere l’intera platea davanti, con gli ultimi due dischi ad alternarsi in scaletta. “Sun” è la chiusura ideale per la tre giorni al Parc del Forum.

Caribou

Le ultime ore della notte (o le prime del mattino, a seconda dei punti di vista) sono quasi sempre dedicate alla musica elettronica. Jon Hopkins è uno dei nomi che risalta di più nel cartel e preme subito sull’acceleratore con beat quadrati e precisi e atmosfere avvolgenti. Lo show di Chet Faker, altro nome attesissimo in ambito elettronico, lascia in parte interdetti: se la seconda parte del concerto, con tutto il gruppo sul palco, è apparsa azzeccata, la prima, con l’artista da solo, spesso con le basi, è sembrata quasi un “karaoke”. Rimane il dubbio sul perché la band non lo abbia accompagnato dall’inizio alla fine. Va detto, però, che anche in questo caso il pubblico si è fatto prendere alla grande.

Tra chi si è esibito all’Apolo il mercoledì e la domenica meritano una menzione particolare i Viet Cong, The Juan McLean e Thee Oh Sees: il gruppo canadese, forte di uno degli esordi più acclamati di questa prima metà dell’anno, parte piano, crescendo però alla distanza fino arrivare alla deflagrante doppietta formata da “Continental Shelf” e “Death”; The Juan McLean si presentano con Nancy Wang (ex LCD Sounsystem) alla voce e riescono a stipare il locale di bassi e sonorità electro-pop; la band di John Dwyer è sempre una sicurezza, potente con due batterie sul palco oltre a basso, chitarra e voce.

Il Primavera Sound è un festival che concede pochi sguardi indietro, ma molti avanti, ecco che già sappiamo quando avrà luogo l’edizione del 2016 (dal 2 al 4 giugno) e ora si aspettano con trepidazione gli annunci dei primi headliner.