Pothamus, panteisti

Un po’ di dati, visto che qua non li conosce nessuno: belgi (Mechelen), basso + batteria + chitarra, cantano a più voci, integrano strumenti etnici (surpeti, ad esempio), sono sotto l’ala della tedesca Pelagic, negli ultimi dieci anni hanno pubblicato varie cose ma per semplificare direi che va sentito l’esordio sulla lunga distanza Raya del 2020 e sicuramente va ascoltato questo Abur, che presenteranno nella sua interezza pure al Roadburn ad aprile. La forza dei Pothamus era tanta già all’epoca di Raya, bastava sentire un pezzone massiccio, tagliente e allo stesso tempo evocativo come “Varos”. Il loro sound eredita molto dagli Om, per prima cosa la fisicità. Mi vien da azzardare un complimento grosso: i Pothamus proseguono proprio il percorso di Al Cisneros e sono la band più panteistica che io conosca, perché i loro crescendo e i loro canti sembrano sollevare loro, noi, la terra e gli alberi che abbiamo intorno, è come se liberassero energie primordiali latenti da secoli non negli esseri umani, ma nel cosmo. I’m the earth, the woods, the sea, the winds; Older than the Gods, than time itself. No death, no birth – we are but Void, cantano in “Savartuum Avur”, il primo pezzo di Abur messo in giro da Pelagic un paio di mesi fa: movimento circolare della batteria, basso ipnotico, atmosfere ancestrali, salmodiare, l’inevitabile esplosione a metà del tragitto, noi con loro. Vado a sentire gli altri brani scelti dall’etichetta come anticipazioni: non può mancare “Zhikarta”, più potente e meno atmosferico di “Savartuum Avur”, con un basso spaccapavimenti e un tiro sciamanico incredibile, abbinata a un video col ballerino Jaouad Alloul che ci induce a chiederci, come nel nuovo “Twin Peaks”, “what year is this?”. Non può in effetti mancare nemmeno “Ykavus”, per far sentire gli strumenti “etnici”, che i Pothamus in genere utilizzano per creare bordoni: insomma, come sempre in ambito post-metal, ambient e psichedelia (i vuoti) sono importanti quanto i pieni, la tensione quanto il rilascio.

Abur è uno di quei dischi che ti sembra di conoscere da sempre, almeno se hai ascoltato musica heavy negli ultimi venti/trent’anni, ma è fresco, autentico e ha lo slancio che hanno le band al picco dei loro poteri.


Vi ho scoperti con i video di “Varos” e mi sono innamorato della ballerina Rafke Van Houplines. Una delle vostre nuove canzoni, “Zhikarta”, è accoppiata a un video del ballerino Jaouad Alloul. Vi interessa la danza come una forma d’arte separata?

Michael Lombarts (basso): Siamo interessati ad altri domini artistici e ci piace espandere l’universo dei Pothamus lavorando con artisti di campi differenti. Per “Zhikarta” e “Varos” volevamo lavorare con ballerini nello specifico perché sono allenati a usare i loro corpi per esprimere visivamente emozioni. Sanno come interpretare concetti astratti e tradurli in modo impattante.

Kevin Martin (The Bug) dice che la sua musica celebra la pressione atmosferica e la gioia dell’assalto a tutto il corpo per mezzo di sound system fuori misura e sale club sotto misura. Anche la vostra musica deve colpire fisicamente? È necessario per i Pothamus?

Michael Lombarts: Crediamo che la musica possieda un potenziale raro. Un significato cosmico che parla direttamente alle radici dell’anima. Evoca qualcosa di profondo e antico.

Quelli della band francese Aluk Todolo mi hanno raccontato che loro non compongono musica, loro prendono ordini dalla musica. Sono una specie di medium. Faccio questa domanda a ogni band con un lato “ipnotico”, “estatico”: vi sentite dei medium? La musica è una forza che vi controlla e non viceversa?

Michael Lombarts: Tendiamo a vederci come strumenti. Ci sono momenti in cui trascendiamo noi stessi, quando ci perdiamo davvero nel suonare. Comporre musica, in ogni caso, consiste anche nel fare scelte libere legate alle tue sensazioni per una certa canzone o in un certo momento. Quindi c’è anche un aspetto razionale.

La rubrica “Epiphanies” della rivista Wire sta sul magazine dal 1998. In questa rubrica musicisti e critici scrivono delle loro esperienze personali legate al potere trasformativo della musica e agli incontri con la musica che cambiano la vita. Una delle mie epifanie è Pilgrimage degli Om. Come descrivereste la vostra relazione con la musica di questa band?

Michael Lombarts: Al Cisneros mi ha influenzato come bassista, sia in termini di sound, sia di tecnica. Gli Om tendono a creare un effetto trance attraverso la ripetizione e un approccio molto puro. La povertà di strumentazione crea un’esperienza diretta con loro. Siamo fan da molto tempo e li abbiamo visti dal vivo più volte.

Nel corso della loro carriera gli Om hanno aggiunto strumenti etnici al loro setup. Questo mi dà la chance di parlare del Surpeti: prima dei synth, le persone ottenevano drone dal Surpeti. Penso sia molto ovvio che questo strumento sia adatto alla vostra musica, quindi vi chiedo semplicemente: come lo avete scoperto?

Mattias M. Van Hulle (batteria): L’ho visto usare durante una performance al Festival Lunalia, nella nostra città, Mechelen. Il sound mi ha parlato subito. È uno strumento antico, in origine usato come guida nel corso dei rituali e per i canti mantra.

Sono grande fan delle band dove canta più di un musicista. È figo perché cantare insieme è davvero agire da band, come un insieme, non come individui. In quei momenti l’ascoltatore vuole cantare insieme a voi. Ho esempi infiniti. Perché avete deciso di usare due voci?

Michael Lombarts: Per donare ricchezza e colore al nostro sound. Dopo Raya volevamo espandere l’universo uditivo della nostra musica. Sia in termini di pesantezza, sia per quanto riguardava le parti più impalpabili. Aggiungere una voce ci ha dato la possibilità di raddoppiare le dimensioni vocali delle nostre canzoni, quindi id arricchirle in termini di emozioni espresse. Cantare ha ovviamente molto a che fare col corpo. È uno strumento molto personale, che può dare alla musica un fascino più personale.

Per quanto riguarda i testi, devo alzare bandiera bianca. Ci sono troppe influenze e troppi argomenti che non conosco. C’è una traccia in Abur dalla quale l’ascoltatore possa partire per comprendere il vostro modo di pensare?

Michael Lombarts: Pur essendo corta quanto a testo, la title-track “Abur” racchiude veramente l’essenza concettuale dell’album. Al centro del microcosmo filosofico che è “Abur” si trova l’idea della rete della vita. Siamo tutti parte della natura, siamo tutti natura. Siamo letteralmente fatti degli elementi della terra e condividiamo tutti relazioni e influenze reciproche. Questo è il pilastro centrale dell’album. Le altre canzoni possono essere interpretate più facilmente partendo da questa base. Tuttavia, molti concetti nei testi, riferiti al buddismo orientale o all’esoterismo occidentale, hanno una ricchezza e una profondità molto stratificate. Mi piace aggiungerli come “holzwege” (i “sentieri interrotti” di Heidegger, ndr) ad altri corpi di letteratura e idee al di fuori dei nostri testi.

Quest’anno suonerete “Abur” per intero al Roadburn Festival. È una pietra miliare per voi? Siete fan di questo festival creativo e vitale?

Sì, molto. Ricevere la richiesta di suonare Abur per intero al Roadburn è uno dei nostri “highlight” personali finora. Siamo andati al Roadburn per molti anni. Ogni anno ci ha dimostrato che spinge in avanti in confini della heavy music. Stanno davvero ridefinendo la pesantezza (è il claim del festival, ndr). Ogni visita ci ha portato ispirazione e ha colorato il nostro gusto musicale. Essere in grado di cambiare lato e salire sul palco per suonare al Roadburn è davvero un punto di svolta per noi come band. Non avere dubbi, fai il viaggio e visita il Roadburn Festival.