Pierre-Yves Macé: imitare la melodia di una parola assente

foto di Camille Tauveron

Pierre-Yves Macé è un compositore parigino di quarant’anni che ha esordito a vent’anni per la Tzadik di John Zorn; il suo ultimo disco, Rhapsodie Sur Fond Vert, è senz’altro già un autorevole candidato a disco dell’anno. Questa è la sua prima intervista italiana e non nascondiamo che di questo siamo contenti e orgogliosi. Difficile descrivere una musica che fa di un’ambiguità drammatica e imprendibile la sua sostanza più luminosa e che ci ha lasciato semplicemente folgorati. Forse meglio lasciare subito la parola al suo autore, un musicista raro per cui la parola genio non suonerà sprecata.

Com’è stato il tuo viaggio dentro la musica, da dove vieni, da questo punto di vista? Ascoltando i tuoi dischi è difficile capirlo: ambient, post-rock, contemporanea…

Pierre-Yves Macé: Sono stato cresciuto in una famiglia di non musicisti e a lungo ho vissuto senza musica. Mio fratello maggiore ha cominciato con la batteria e mi ha così iniziato all’informazione musicale che viveva allora il suo primo stadio di sviluppo presso il grande pubblico. Sempre attraverso lui sono arrivati così i miei primi amori, focalizzati soprattutto sul rock progressivo degli anni Settanta: Yes, Genesis, King Crimson. Ero sensibile all’energia del rock ed allo stesso tempo cercavo una certa complessità nella struttura dei pezzi. Parallelamente, con lo studio del piano classico, scoprivo il repertorio di inizio Novecento: Stravinsky, Debussy, Ravel, Weill e in misura minore Bartok sono stati compositori molto importanti per me. Poco a poco questi gusti mi hanno fatto avvicinare a musiche via via più esigenti: sperimentale, improvvisata, elettroacustica, free jazz, musica contemporanea scritta. La scoperta di Brian Eno ha funzionato da trait d’union tra rock e avanguardia. Per quanto riguarda la musica contemporanea, ho una predilezione per gli americani e gli inglesi: Steve Reich, Gavin Bryars, Harold Budd e Morton Feldman, di cui resto un ammiratore incondizionato. Solamente più tardi ho scoperto nel dettaglio l’avanguardia europea del Novecento. Berio è l’autore che mi interessa di più, senza dubbio perché ha sempre cercato di costruire dei ponti con il repertorio popolare. Arrivando ai compositori più vicini a noi, apprezzo il lavoro di Heiner Goebbels, Salvatore Sciarrino, Gérard Pesson. Per completare il quadro, ascolto sempre parecchio rock, più o meno sperimentale, ed in particolare nutro una vera e propria venerazione per Scott Walker.

Il tuo primo ricordo musicale? Una canzone, un suono, che cosa?

Ricordo la prima volta che ho avuto un pianoforte sotto le dita. Avevo circa cinque anni, ero dai miei vicini, i miei genitori erano impegnati ed ebbi lo strumento a disposizione per un tempo che mi parve incredibilmente lungo: tutto un mondo sonoro e tattile si aprì in un colpo solo.

Parlami di Rhapsodie Sur Fond Vert. Come hai lavorato, cosa ti ha ispirato?

Il mio lavoro di compositore consiste in gran parte nel rispondere a stimoli che vengono da fuori. Si tratta spesso di progetti appassionanti che mi portano a collaborazioni che mi arricchiscono, ma per questo disco ho sentito imperiosamente il bisogno di focalizzarmi su di me e di realizzare un’opera di cui fossi il solo ed unico responsabile. Una sorta di giardino segreto, ecco. Sono tornato al mio modus operandi degli inizi, quello del disco Faux-Jumeuax del 2002, dove associavo performance strumentali a tecniche di studio (montaggio, suoni processati), così da creare una musica che avesse uno status ambiguo, tra musica da camera e creazione elettroacustica Ho sfogliato i miei archivi e ho trovato tra i pezzi che avevo scritto per il teatro o la danza dei materiali che potevano servire come spunto di partenza. Tra questi, un duo per viola e violoncello fondato su di un principio molto semplice; un ciclo che contiene al suo interno la sua stessa trasposizione un mezzo tono sopra (ad ogni ulteriore ripetizione, il ciclo si fa più acuto). Questa musica aveva un carattere elegiaco particolarmente marcato e ho subito avvertito la necessità di inserire un testo parlato per far sbocciare pienamente questo sentimento.

Per questo hai scelto la voce di Bertolt Brecht?

È proprio allora infatti che mi sono imbattuto in questo archivio di Berlolt Brecht che legge, pochi anni prima della sua morte, la sua poesia “An die Nachgeborenen”. C’è nel testo un gesto molto forte: si rivolge alle generazioni future e dice loro, con parole che colpiscono nella loro semplicità: “Voi, che vivrete in un tempo in cui l’uomo aiuterà l’uomo, pensate a noi con indulgenza”. Al di là del senso stesso di questa poesia, qualcosa nella pronuncia, nella musicalità, questo miscuglio di semplicità, di neutralità e di gravità, senza alcuna enfasi, mi ha commosso profondamente. Così quella registrazione d’archivio è diventata il centro di gravità del disco. Dico questo perché in realtà appare due volte. Prima che la si ascolti nel pezzo “Finsteren Zeiten” se ne sono già avvertiti alcuni accenti spettrali nell’altra traccia lunga dell’album, quella omonima. In effetti, in sede di composizione, ho trascritto le intonazioni melodiche della voce di Brecht e ho dato la partitura alla violoncellista Maitan Sebastiane. Come se lavorassimo con una parola assente. La mia immaginazione ha paragonato questa linea melodica alle silhouette scontornate che vengono filmate su un fondo verde quando si vogliono realizzare degli inserti. Ho scritto il pezzo proprio seguendo questa idea, variando più possibile i fondali che accompagnavano questa figura melodica, questa parola senza parole. Ho cercato di realizzare dei contrasti molto forti, per accentuare la drammaturgia dell’ascolto. Come se si seguisse un personaggio che attraversa una moltitudine di ambienti diversi, più o meno ostili. Il mio lavoro poi è consistito nello strutturare il disco attorno alle due tracce più lunghe, gestendo un equilibrio tra tensione e rilasci, stridori e consonanze, sviluppi lunghi e haiku furtivi e fulminei, in modo che, a dispetto della diversità delle fonti sonore, l’insieme si potesse attraversare come l’arcata di un ponte.

Cos’è lo speaking cello?

Non è altro che un violoncello classico che suona però qualcosa che somiglia a una parola, che imita la melodia di una parola assente.

Com’è la vita da musicista in Francia? Avete una grande tradizione di musica sperimentale, la musica concreta, Boulez, Henry… Due anni fa ho partecipato ai festival di Mulhouse e di Luz e ho notato una grande attenzione e un buon pubblico per i suoni non allineati, non è così? In Italia la situazione mi sembra davvero più complicata, in più in Francia esiste ancora una forma di indennità artistica per i musicisti erogata dallo stato, o sbaglio?

Proverbialmente, l’erba del vicino è sempre più verde; tenderei a dire che da noi la situazione non è brillante come la dipingi. Occorre però essere equilibrati: è pur vero che, in rapporto ad altri paesi, il nostro stato investe in maniera abbastanza significativa nella cultura e questo permette ad uno come me, ad esempio, i cui lavori non attirano le folle e non riempiono le casse, di poter vivere in modo onorevole della propria musica; ho piena coscienza del fatto che questo non potrebbe essere possibile dappertutto, ad esempio in Italia, come noto. In effetti beneficiamo della disoccupazione per i lavoratori dello spettacolo che è un sistema di redistribuzione economica fondamentalmente giusto, malgrado gli inevitabili difetti (per esempio sarebbe meglio se ne beneficiassero anche gli autori e non solo gli interpreti). A mio modo di vedere il punto dolente è la questione del pubblico, e più in generale dell’educazione musicale. Constato in effetti che in Francia il pubblico di un concerto di musica sperimentale o contemporanea è irrisorio rispetto a quello di uno spettacolo di teatro o di danza, oppure di una mostra d’arte. Le persone colte applaudono gli spettacoli di Pina Bausch o Claude Régy ma ignorano alla grande i compositori che fanno un lavoro di pari livello nel campo musicale. La curiosità reale è condivisa quando si ha a che fare con le arti visive, mentre pare svanire d’un tratto quando si entra nel campo del suono. Perché? Non ho una risposta definitiva ma credo che questa mancanza di sensibilità sia innanzitutto una mancanza di sensibilizzazione. Fortunatamente ci sono dei festival che sono luoghi preziosi dove aperture e circolazione rimangono possibili. Il pubblico si rende di solito più disponibile alla scoperta se la programmazione ha il coraggio di osare.

Come hai vissuto il periodo del lockdown? Hai composto della musica? Com’era (è) scandita la tua giornata tipica?

Ho scritto davvero poco per una ragione molto semplice: ho due bambini molto piccoli, che non andavano più ovviamente all’asilo nido e quindi mi sono dovuto occupare di loro praticamente a tempo pieno! Sono comunque riuscito a partecipare al progetto di podcast quotidiano Decameron-19 organizzato dal regista Sylvain Creuzevault, che ha riunito attori, musicisti ad artisti sonori attorno alle famose novelle di Boccaccio. La mia giornata tipica cambia a seconda delle fasi della mia vita. In questo periodo i mastri orologiai della mia esistenza sono i miei figli. Per forza di cosa, lavoro ad orari di ufficio classici, dalle nove alle diciassette, e qualche volta anche un paio di ore la sera, dalle ventuno alle ventitré.
Ma la mia giornata ideale è completamente diversa, mi piace lavorare al mattino e poi al pomeriggio approfittarne per leggere, riposare, passeggiare. Poi arriva la mia ora preferita, tra le sei e le nove circa. Quando riesco a lavorare in quelle tre ore, è meraviglioso. Non sono molto nottambulo, a meno che non mi capiti di essere molto in ritardo con una consegna di una partitura. Il lavoro di composizione è qualcosa di davvero instabile: ci sono giorni in cui non si fa altro che spedire mail e occuparsi di burocrazie. Altre volte, non si fa altro che ruminare un’idea, senza lavorare per davvero. Qualche volta è molto scoraggiante, ma l’esperienza mi ha insegnato che bisogna accettare questi momenti con tutta la serenità possibile ed accogliere il fatto che ci sono inevitabilmente frangenti in cui semplicemente nulla funziona. Poi arriva sempre un momento in cui, grazie a tutte le connessioni che si sono stabilite a un livello incosciente, l’invenzione finalmente si libera e allora, come per magia, tutti i pezzi combaciano, tutto viene a galla con evidenza, in modo fluido. In questo periodo sono impegnato nella messa a punto dello spettacolo di teatro e musica “Suite. no.4” con l’Encyclopédie de la parole, il regista Joris Lacoste, il compositore Sébastien Roux e l’ensemble Ictus; l’opera avrebbe dovuto essere messa in piedi proprio nel periodo della quarantena e invece, se tutto andrà bene, verrà posticipata a settembre per il festival Musica a Strasburgo. Ho molto altro in cantiere per il futuro prossimo: una piccola canzone per una installazione sonora al Teatro dello Châtelet, una composizione elettroacustica per il GRM, la creazione di un nuovo pezzo per violoncello ed altoparlante con la violinista italiana Silvia Tarozzi e un concerto al Festival d’autunno a Parigi. Infine l’uscita di un vinile split con Silvain Vanot, sempre su Brocoli Records. Spero di non metterci sei anni per realizzare il seguito di Rhapsodie Sur Fond Vert.

Conosci altri musicisti italiani, a parte Tarozzi? Con chi, vivente o no, ti piacerebbe collaborare?

Non conosco personalmente altri musicisti italiani. Per quanto riguarda le collaborazioni rimpiango molto di non essere ancora riuscito a lavorare per il cinema. Sarà pur vero che la mia musica non assomiglia esattamente allo standard odierno della musica da film, ma io penso che invece sarebbe un tipo di ambito nel quale mi troverei molto a mio agio: serve solo che incontri un regista o una regista con cui instaurare un dialogo proficuo.

Tzadik Records: come sei entrato in contatto con loro? Ho scoperto la tua musica proprio con il tuo esordio sull’etichetta, Faux Jumeaux, un disco che mi colpì molto.

Tutto è cominciato con Zorn per me, è vero; sono entrato in contatto con lui nella maniera più semplice immaginabile: gli ho spedito qualche bozza, lui ha apprezzato e mi ha tempestivamente risposto invitandomi a fare un disco intero con lui. Per il giovane musicista totalmente sconosciuto che ero allora (avevo vent’anni, era il 2000) entrare nell’entourage di un’etichetta così prestigiosa fu un evento davvero inaspettato. John ha esercitato in quell’occasione a pieno il suo ruolo di produttore esecutivo, lasciandomi libero di fare la musica che volevo. Ho cercato di mantenere vivo il contatto tra di noi ma le musiche che gli ho proposto in seguito non gli sono piaciute: mi sono così rivolto ad altre etichette, come la belga Sub Rosa o la parigina Brocoli. Continuavamo però a discutere della possibilità di fare un altro disco insieme, e finalmente l’occasione si è presentata nel 2013, quando gli ho fatto sentire la registrazione live della composizione “Segments Et Apostilles”, che ha apprezzato molto. Eravamo già vicini all’agonia del supporto fisico e poco dopo Zorn ha deciso di interrompere le pubblicazioni della Composers Serie e ha ricalibrato la Tzadik soprattutto sui dischi a suo nome. Non faccio parte degli zornofili più ferventi, ma la sua musica del decennio 80-90 ha avuto una enorme influenza su di me. L’integrale di Naked City, oppure i dischi Godard / Spillane, Kristallnacht, Elegy, Duras / Duchamp mi hanno accompagnato a lungo. La sua musica mi ha insegnato ad accogliere l’eterogeneità dei materiali attraverso forme talvolta anche radicali. Grazie al suo lavoro non ho più paura di far convivere sorgenti e fonti molto lontane tra di loro all’interno della medesima composizione.

Mi citi qualche musicista che nessuno o quasi conosce e che invece sarebbe opportuno conoscere, secondo te?

Si tratta di una domanda davvero stimolante alla quale però mi risulta difficile rispondere, perché potrei essere offensivo nei confronti dei musicisti in questione, che magari sono più noti di quanto io non immagini. Citerei un disco solo che mi sembra molto carbonaro e meriterebbe di esserlo meno: I Hear It In the Rain de Michael Jon Fink, una meraviglia di musica per pianoforte pubblicato dalla Cold Blue (e a dire il vero, gli altri dischi dello stesso autore mi affascinano molto meno di questo).

Cosa stai ascoltando in questo periodo?

In omaggio a Keith Tippett, ho tirato fuori qualche vecchio disco dei King Crimson, così come il quartetto Ovary Lodge, anche se devo confessare che quest’ultimo suona un po’ troppo hippie alle mie orecchie ora.

A parte dalla musica, da cosa trai ispirazione?

Essenzialmente letteratura e filosofia; ho collaborato molto con scrittori e adoro comporre partendo dal linguaggio, che si tratti di un testo scritto o di una voce parlante.

La musica perfetta per l’inizio e per la fine del mondo?

Per la fine del mondo Bish Bosch di Scott Walker. Per l’inizio, l’alba di Daphnis et Chloé di Maurice Ravel.

Roscoe Mitchell ha detto che il silenzio, così com’è, è perfetto e ci vuole molta cautela quando si decide di infrangerlo. Che ne pensi?

Ho un grande rispetto per Mitchell ma non condivido il suo punto di vista. Per me il silenzio non è un assoluto: si tratta ogni volta di un silenzio in rapporto ad un evento che ha avuto o che avrà luogo. Cage ha dimostrato che il silenzio puro, fisico, non esiste. In musica ci sono silenzi magnifici come dei silenzi banali o sprecati. Per me in conclusione comporre non è mai rompere il silenzio ma anzi creare la possibilità di farlo esistere.

E il tuo rapporto col jazz?

Mi viene detto spesso che la mia musica ha a che vedere col jazz, può essere sia vero, ma se così è, si tratta di qualcosa che avviene in modo del tutto inconsapevole. Il mio rapporto con questa musica è complesso: quando ero giovane ascoltavo parecchio rock progressivo e gruppi come i Gong mi hanno condotto per mano verso il jazz-rock. Si tratta però di una musica che ho avuto la tendenza a respingere quando mi sono avvicinato ai suoni liberi. Lì mi sono immerso invece nel free: Derek Bailey (che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo al festival MIMI poco prima della sua morte), Albert Ayler o Evan Parker. Resta però un mondo che conosco troppo poco. In questa fase sto tentando di riconnettermi con il passato storico; mi rituffo dentro Miles Davis e Bill Evans e scopro per la prima volta probabilmente tutte queste musiche che conoscevo senza conoscerle veramente.