Perle ai porci: The Turpentines e She Keeps Bees

THE TURPENTINES, American Music For American People
White Jazz Records (1998)

Dagli anni Cinquanta a oggi il rock’n’roll si è manifestato in tutte le forme possibili, immaginabili e non. Una serie innumerabile di colori e sfumature, talmente lunga da far apparire il compianto John Holmes come un minorato e l’Enciclopedia del Porno come il libretto d’istruzioni per montare uno di quei mobiletti prodotti dalla strafamosa azienda svedese che tutti conosciamo. Ed è principalmente dalla Svezia che sono arrivate, a cavallo del nuovo millennio, diverse incarnazioni del nostro genere musicale preferito. Tra il 1995 e il 2005 si assistette a una vera e propria Scandinavian Invasion e centinaia band più o meno famose, prodotte da etichette che, anche grazie a internet, si apprestavano ad abbandonare definitivamente gli abissi caotici dell’autoproduzione, diedero corpo ad una vera e propria scena, un movimento musicale che, pur ispirandosi a band d’Oltreoceano di una decina d’anni più vecchie come Mötley Crüe ed L.A. Guns, possedeva caratteristiche proprie tanto da lasciare il segno. Senz’ombra di dubbio avrete sentito parlare di Hellacopters, Backyard Babies e Hardcore Superstar, solo per citarne alcuni, ma come spesso accade, anche nell’arco di quest’invasione vichinga, non tutti i gruppi riuscirono a guadagnarsi uno spazio, alcuni perché facevano davvero schifo, altri perché… onestamente non so spiegarlo!

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Quasi una ventina d’anni fa, mentre spulciavo il reparto novità in un negozio di dischi, rimasi colpito dalla sbruffonaggine con cui un tizio immortalato nella copertina di un cd alzava un microfono al cielo. Era American Music For American People, album d’esordio dei Turpentines. Chiedetevi senza problema i Turpen-chi? Siccome uscivano per la defunta White Jazz (ai tempi stessa etichetta di Hella’s e Gluecifer) non avevo dubbi sulla loro provenienza, ma l’ascolto riservò una sorpresa riguardo al genere proposto. Agli sconosciutissimi Turpentines, infatti, non fregava nulla dei ritornelli orecchiabili, dei pezzi lenti al confine con le ballad e di quasi tutto quanto divenne caratteristico (anche) della Scandinavian Invasion. La loro interpretazione del rock flirtava pesantemente con il garage di Detroit e NYC, ignorando il glam di L.A. nello stesso modo in cui ad un party dimentichi la bellissima biondona su cui tutti posano gli occhi perché attratto dalla brunetta esteticamente non perfetta, ma con la quale sai già che i momenti passati insieme saranno pura dinamite!
Breve digressione: amiche lettrici, se state pensando che io sia il solito maschilista vi invito a leggere il paragone in chiave opposta, concentratevi quindi sul brunetto, mentre, se le chiome bionde dovessero sentirsi in qualche modo sminuite, consiglio di prendere oggi stesso appuntamento dal parrucchiere per una bella tinta.
Tornando a noi, dopo un brevissimo ascolto decisi ovviamente per l’acquisto di questo bellissimo disco che reputo ancora oggi un autentico gioiello, una gemma andata persa e ignorata dai più oltre che dalla stampa specializzata. Come a bordo di un trenino sulle montagne russe, l’album, con i primi tre brani, ci lancia nel vuoto da un’altezza spropositata e lascia intendere con chiarezza qual è la matrice primitiva in cui la band affonda mani e braccia fino alle spalle. A metà spaccata disco troviamo incastonato il diamante della tracklist, ovvero “She Belong To Jesus”, un peccaminoso rock’n’roll grezzo, sudicio ed irresistibile! Dopo una serie di discese improvvise, intervallate da qualche tratto meno veloce, ma non lento, i Turpentines trasportano l’ascoltatore inerme fino a fine corsa senza perdere un colpo!

Con le sue chitarre sguaiate, le ritmiche indemoniate e una voce rozza ai limiti dell’afonia, American Music For American People è un album di autentico Rock’n’Roll, abrasivo ed erotico, molto più vicino a Devil Dogs e Rocket From The Crypt che allo sleaze-glam svedese, ed è un vero peccato che dopo un secondo full length ed una manciata di ep i Turpentines si siano definitivamente sciolti.

Perennemente nella mia Top 3 di scandinavian rock.

Tracklist

01. Not So Cool
02. Move Fast
03. Lie To Me
04. Everything Is More Than Ok
05. One Thing
06. Don’t Even Care
07. She Belongs To Jesus
08. Dickhead
09. G.T.O.
10. Gimme The Shakes
11. No Salvation
12. Bad (Shit)
13. This Ain’t The Way

SHE KEEPS BEES, Nests
Names Records (2009)

Il bello dell’andare a un concerto, oltre a goderti la band preferita che suda e si guadagna il pane suonando sotto i tuoi occhi, che a volte restano increduli e altre meno, è che ti dà la possibilità di conoscere artisti ignoti vedendoli direttamente sul palco, senza aver mai ascoltato nulla fino all’istante prima. Esattamente di quest’ultimo tipo è stato il mio incontro con il duo di Brooklyn She Keeps Bees, che vidi casualmente a Londra nel 2009 mentre era in tour per promuovere Nest, loro secondo lavoro che, prendete nota, verrà ristampato da BB Island per la prima volta su supporto in vinile a dicembre 2016, periodo in cui saranno nuovamente in tour nel nostro continente.

Quando dico duo, per alcuni potrebbe scattare automaticamente il richiamo a White Stripes, Black Keys, Death From Above e smili. Lasciate perdere qualunque associazione e dimenticate tutto! I due She Keeps Bees, Jessica Larrabee ed Andy LaPlant, rispettivamente voce/chitarra e batteria, con Nest si muovono in ben altre (e a mio avviso più alte) sfere. Descriverli non è facile, nelle loro note c’è molto blues dei campi di cotone, qualcosa che lascia vagamente pensare a P.J. Harvey, sonorità di Seattle primi anni Novanta e soprattutto c’è farina del loro sacco che integra e s’impasta a perfezione con il resto.

La voce di Jessica, nonostante sia chiaramente bianca, è penetrante come quella nera. Lo si sente da subito in “Ribbon” e in pezzi come “Release” e “Gimme” che ti entrano dentro facendo vibrare nel profondo quelle corde che tengono legata l’anima al corpo. L’intensità è altissima in ogni singolo pezzo grazie anche agli accompagnamenti di chitarra ed al drumming raffinato ed efficace di Andy. Nests è un album molto sentito e introspettivo, dove i pochi elementi, enfatizzati da una registrazione semplice, né lo-fi, né super curata, ma perfetta per il caso, trovano sempre la migliore collocazione, mettendo in risonanza lo spettro emozionale di chi ascolta. Stiamo parlando di un piccolo capolavoro di undici tracce dalla durata media di due minuti e mezzo l’una… anzi, non è vero, perdonatemi! Ho mentito: è un album fantastico, incredibilmente bello e seducente! Uno di quei dischi che mi emozionano ogni singola volta che lo metto su e del quale mi ritrovo a canticchiare qualche pezzo anche dopo mesi dall’ultimo ascolto. Inoltre, un prodotto del 2009 che suona originale è indubbiamente merce rarissima!

Come mai ‘sti due, nonostante vadano in giro ormai da una decina d’anni, non hanno ancora sfondato il muro dell’indifferenza massmediatica è un mistero. Sarà mica che mi ubriaco prima di scrivere recensioni? Potrebbe darsi, ma in tal caso potrei avvalermi del sempre valido detto “in vino veritas”. La realtà, purtroppo o per fortuna, credo sia un’altra e la conosciamo tutti: il produrre musica di un certo spessore e la noncuranza nei confronti del look, sia on che off stage, li rende da un lato assai vicini al pubblico ma dall’altro inadatti per le copertine dei giornaletti e le soundtrack delle pubblicità per il piccolo schermo. Tutto ciò, sebbene sia contro le logiche del music business, è un certificato di vocazione artistica incontaminata, suonare per comunicare e trasmettere emozioni, ed in questo, pur non essendo famosi, Andy e Jessica sono una band di assoluto successo! Quando penso che il mondo fa schifo ascolto Nests per curarmi l’anima.

Tracklist

1. Ribbon
2. Wear Red
3. Release
4. Gimmie
5. Get Gone
6. My Last Nerve
7. Bones Are Tired
8. Focus
9. You Can Tell
10. Strike
11. Cold Eye