Perché sei così serio? Breve storia degli Arcturus

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Questo gruppo – a seconda di quando lo vogliamo far iniziare – ha tra i venti e i trent’anni di vita e ruota intorno a Steinar Sverd Johnsen (piano e sintetizzatori) e a un certo Hellhammer alla batteria. Nel corso del tempo, magari solo per un brano, per gli Arcturus è passata una fetta grossa del black metal norvegese storico, Ihsahn e Samoth (Emperor) compresi. Il pezzo avrà un taglio spiccio, perché temo sarà soggettivo più del lecito: non mi interessano My Angel, Constellation e Aspera Hiems Symfonia, i loro primi dischi, che possiedo per ovvia curiosità ma che non mi hanno mai detto molto, forse perché li ho sempre visti solo come delle bozze del buono che sarebbe arrivato dopo.

I have not been the same since / I took on the profession of a devil

La Masquerade Infernale

L’album per il quale ricorderemo gli Arcturus probabilmente sarà sempre La Masquerade Infernale del 1997. Non voglio allegare scansioni di vecchie riviste, ma ancora oggi, quando una band black metal dice “famolo strano”, chi poi scrive il comunicato stampa tira fuori questo jolly per spiegarsi, pur avendo a disposizione i nomi dei vari Ved Buens Ende, Fleurety o Virus… o i secondi Manes… o i Dødheimsgard… All’epoca gli Arcturus sono Sverd ed Hellhammer, ma anche Garm (Kristoffer Rygg) degli Ulver e Simen Hestnæs (Borknagar) alle voci, Knut Magne Valle alla chitarra, pure in veste di produttore insieme a Rygg, Hugh Stephen James Mingay (aka Skoll, sempre Ulver) al basso, più una pletora di ospiti impegnati a suonare archi (anche un flauto) e ad aggiungere assoli (Carl August Tidemann, se qualcuno ricorda i Winds). Valle e Skoll, tanto per non scambiare questa band per un all star game a ciclo continuo, ci saranno quasi in tutte le partite successive, compresa quella di oggi.
È con La Masquerade Infernale che gli Arcturus diventano i Joker del black metal, sempre sul punto di ucciderlo, ma troppo divertiti dal giocarci per farlo davvero. La band non è seria, anche se questo non vuol dire che in alcuni frangenti non ne sia capace, niente sembra vero e tutto pare pensato per shockare un pubblico non pronto alle contaminazioni del futuro, né ancora ben in grado di immaginare imminenti derive commerciali o l’interesse di non-metallari per questi suoni (vedi cos’è successo al black americano degli anni Zero). Niente screaming, anzitutto, poi – sotto la guida di Sverd e dei suoi barocchismi pianistici/tastieristici – si comincia con gli ammiccamenti buffoneschi all’opera lirica intrecciati con le storture chitarristiche molto poco ortodosse di “Master Of Disguise” (un manifesto, se ascoltate le parole), il violoncello e il flauto struggenti di “Ad Astra”, la potenza e la teatralità a tutt’oggi sconcertanti di Hestnæs in “The Chaos Path”, brano con una coda jungle (sic) a cura di un Garm che già quella volta meditava la metamorfosi degli Ulver ed è secondo me quello che con simili inserti deragliava una band altrimenti più “banalmente” prog.  Voglio nominare poi la risposta altrettanto epica di Kristoffer a Simen con “Alone” (è una poesia di Edgar Allan Poe) e “The Throne Of Tragedy” (parole di un futuro Ulver, Jørn Henrik Sværen), ma ci sarebbero ancora molti discorsi da fare (tipo “Painting My Horror”). Dopo arriva un disco di remix, Disguised Masters, che ritengo voluto sempre da Garm sulla sua Jester Records per provocare ancora l’audience sulla “questione elettronica”, operazione piuttosto deboluccia nel concreto, nonostante un paio di cose siano talmente folli da funzionare e riesca a farsi beffe di tanti preconcetti. In fondo è proprio a rimettere in discussione le cose che sono serviti gli Arcturus. Seguono cinque anni di silenzio (il silenzio t’insegna a cantare, diceva qualcuno), che vedono questi musicisti andare per un sacco di strade diverse.

All dreams end here / Where our cries began

Sham-Mirrors

L’altro disco da ricordare è il totalmente insperato The Sham Mirrors (2002), mentre il successivo Sideshow Symphonies (2005), che vede il ritorno di Hestnæs e l’abbandono definitivo di Garm, è moscio, scontato e approssimativo. The Sham Mirrors in quel momento è il nuovo – e per certi versi ultimo – scherzone degli Arcturus, che tra l’altro deve fare proprio buoni numeri, visto che tre anni dopo arriva il contratto con la “grossa” Season Of Mist e si comincia a suonare in giro, cosa difficile – maestri del travestimento, no? – fino a che il tuo frontman è Garm, il quale, se la memoria non m’inganna, all’epoca non era all’incirca mai salito su un palco, difatti il primo live degli Ulver lo vedremo parecchi anni dopo. Il lavoro esce comunque alla grande – ed è, appunto, vendibile – nonostante sia stato registrato nel corso di due anni e in posti diversi, tanto che a volte si sente un po’ di taglia/incolla. È insomma molto meno schizzato e dark del suo predecessore, come se la sorpresa ora fosse la convenzionalità di un disco nel quale c’è del metal più o meno estremo che asseconda i tastieroni, ma nemmeno questo corrisponde alla realtà, dato non ricordo intermezzi finto trip hop in un album dei Watain, non so se si capisce cosa intendo. “Star Crossed” è uno dei capolavori del gruppo, con Johnsen e Rygg sui famosi scudi, poi c’è questo curioso allineamento dei pianeti di “Radical Cut”, un brano con chitarra in tremolo che unisce Emperor e Mayhem (Ihsahn allo screaming ed Hellhammer), ed è forse per questo che Garm “rovina” tutto coi falsetti, perché – ricordiamolo ancora – gli Arcturus sono sempre qui a ridere di noi. Nessun pezzo da buttare, comunque, in Sham Mirrors, anzi. Oltre a qualche riferimento all’opera di Beckett, i testi affrontano spesso il tema classico del perdersi nello spazio, e un po’ è così che andranno le cose.

The Arcturian Sign!

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Tredici anni dopo l’ultimo disco valido e a seguito di un lungo periodo di nulla, riecco, fuori dal tempo come piace a loro, Sverd e soci. Questa volta l’uomo al comando lascia spazio come autore anche a Valle, mentre i testi sono quasi tutti a firma Hestnæs. Intelligentemente, poi, la band coinvolge altri musicisti come ospiti, recuperando lo spirito de La Masquerade, ma poi finisce per fare qualcosa di più vicino a Sham Mirrors, come ipotizzabile. La prima sorpresa è quell’uomo grossissimo al microfono, al quale finalmente hanno messo la sostanza giusta nella vodka, dato che sforna una prestazione folle ed eclettica, passando da scream a vocalizzi femminei, dalla solita arroganza a una sofferta – e clamorosa – “Game Over”. Menzione doverosa anche per Hellhammer, ancora capace di trovare traiettorie diverse. “The Arcturian Sign” è il primo pezzo che gli Arcturus hanno reso disponibile on line e il motivo è chiaro: spirito cabaret vaudeville applicato al metal come solo loro sanno fare, in un periodo in cui questa cosa farà orrore al novanta per cento degli estremisti. La band è così, prendere o lasciare, tanto che persino gli inserti elettronici, piuttosto kitsch, sembrano avere senso se a utilizzarli sono dei tizi che nelle foto sono vestiti un po’ steampunk, un po’ da Rondò Veneziano e un po’ da Barone Rosso. Di fatto tra piccoli cambiamenti e autocitazioni volontarie e meno volontarie, non c’è quasi un pezzo sbagliato in Arcturian (come gli alieni col capoccione), vien da pensare a “Pale”, con Sverd e gli interventi orchestrali in perfetta simbiosi, i cambi di tempo improvvisi ed Hestnæs che ci lascia un paio di corde vocali, un po’ come in “Angst”, maestosa e tronfia come la volevamo (segnatevi anche “Warp”).

Gli Arcturus hanno finito di scardinare i nostri schemi mentali, ma non conosco tanti gruppi in grado di farlo a lungo. Rimane solo il circo, ma che circo ragazzi…