PENELOPE TRAPPES, A Requiem

Rivelatasi già da diversi anni, dal 2017 degli esordi, Penelope Trappes ordisce un gioiellino mortifero con l’ambizioso A Requiem, dove unisce due complementari tipologie di corde, quelle vocali, ovviamente le sue, e quelle del violoncello, che non aveva mai suonato in precedenza. Al quinto full length, il primo per One Little Independent Records, la cantante, polistrumentista, compositrice e produttrice australiana di base a Brighton, si è ritirata in isolamento in Scozia e ne è venuto fuori, a sentir lei, un “requiem personale”, per meglio dire “un funerale vivente”.

In un album che è una chiamata, in un limbo di sperimentazione, dream pop, anzi nightmare pop, e dark ambient, Trappes riflette sulla fine che unisce tutti quanti e – partendo dai genitori, dalla propria terra, dagli antenati – giunge universalmente a “esorcizzare i sistemi patriarcali, politici e religiosi da abusi di potere”. Dunque la messa per i defunti procede lungo undici brani, l’ultimo dei quali in gaelico, che affastellano immagini di druidesse celtiche e battaglie, dolore e pacificazione. “Platinum” cela un cuore di duttile melodia, l’imperiosa “Sleep” sonda il labile confine tra incubo e sogno, “Red Dove” palpita di elettronica lacustre. In “Second Spring” il tema dell’invecchiamento del corpo femminile, scartato dalla società, viene affrontato senza parole, perché “non dovremmo parlare di tutte queste cose”, in meno di due minuti di soundscape filo-horror. “Anchor Us To Seabed Floor” cala in uno scenario da Wildbirds & Peacedrum in chiave gotica-barocca, in lacerante crescendo. “Caro” e “Torc” azzerano ogni questione all’eco della presenza umana e al flebile calore di qualcosa che brucia nell’oscurità. In questo giro di trapassi, si coglie il profumo purificante delle calle.