PARIAH, Here From Where We Are

PARIAH, Here From Where We Are

Here From Where We Are è la dimostrazione tangibile che, a distanza di più di un lustro, Arthur Cayzer ha superato il blocco creativo. Di Pariah si erano letteralmente perse le tracce. E persino il fragoroso progetto Karenn, in coppia con Blawan, era finito col divenire una valvola di sfogo altrettanto arrugginita in termini discografici. Il nome di Pariah era stato fra quelli più chiacchierati e, soprattutto, in voga all’inizio degli anni Dieci del nuovo secolo. Membro a pieno titolo di una nuova classe di produttori britannici, al fianco dei più celebri James Blake e Space Dimension Controller, pronti a cavalcare sia l’onda dubstep, sia a rinvigorire il catalogo della R & S Records, con alcune release di buona fattura. Biglietti da visita per presentarsi al meglio al cospetto degli organizzatori di eventi in giro per il mondo. Una volta esaurita la sbornia, a fronte anche di alcuni lavori incompiuti cestinati senza colpo ferire, Pariah ha dovuto fare i conti con una realtà – non solo musicale – in continua evoluzione. Lo stile adottato e replicato in breve tempo era ciò che il pubblico si aspettava da lui o, viceversa, era la più intima manifestazione della sua creatività.

L’artista londinese ha, dunque, scelto di fare un passo indietro per provare ad analizzare quanto compiuto durante la sua carriera, lasciandosi ispirare da una serie di riflessioni e relazioni personali. Una “rinascita” è da accogliere in modo positivo, perché coincide con rinnovate ambizioni da parte di chi è stato a lungo “dimenticato” dai media, saturi di prendere in esame prodotti replicati in serie, se non poco originali, provenienti dalla scena dubstep. La vera notizia è, però, la svolta “ambient” di Arthur Cayzer, concretizzatasi con il suo album di debutto su Houndstooth, una propaggine della Fabric Records, che segna sia una progressione quasi innaturale del suo sound, sia uno scarto con un passato tanto audace quanto intransigente. La prima spuria dichiarazione d’amore di Pariah nei confronti di quella musica che attribuisce maggiore importanza alle atmosfere e minore valore al ritmo si traduce in nove brani interconnessi che concorrono a pieno al revival dello stile. Nonostante l’impronta beatless, Here From Where We Are è coinvolgente, dall’afflato futurista e, in alcuni frangenti dei suoi quaranta minuti, persino inquietante. Un continuum di pregevole fattura.

L’album prende in via con “Log Jam”, un incipit accattivante dai rimandi finanche industrial, in controtendenza con i canoni dominanti. Il bizzarro raggio d’azione di Pariah si restringe con “Pith” o, meglio, si rivolge a uno spazio oltre il blu, alieno. Per ascolti inebrianti. Le linee di sintetizzatori si sovrappongono con delicatezza, mentre il presunto canto degli uccelli si trasforma presto in un insieme di gocce. È il caso di “Seed Bank”. Il tema acquoso continua con la più frizzante “Linnaea”. Le continue ripetizioni rimarcano la natura caleidoscopica del brano, specie se associate ad altrettanti e curiosi cambiamenti tonali. Bolle di vapore si alzano verso l’alto. Il loro addensarsi si traduce nella nebbia sci-fi di “At The Edge”. La malinconica “Conifer” è, invece, scandita da disorientanti note simil organo. Le campane tibetane di “Rain Soup” il miglior incipit al sopraggiungere della pioggia. Le tastiere favoriscono la progressiva espansione del suono in cadenzati movimenti circolari. Un frammento vocale introduce i densi strati di “Drug The Lake”, preparatori per un ultimo splendido esercizio in chiave zen, “Here From Where We Are”. Ultima celebrazione dell’acqua della nuova vita.