OZMOTIC

Gli Ozmotic (Torino) sono Riccardo Giovinetto (sax, elettronica, visuals) e Simone Bosco (batteria, elettronica). Sono musicisti che suonano da decine di anni e in generale lavorano o si muovono nel mondo della musica e dell’arte. Nel 2015 pubblicano un album collaborativo con Fennesz (AirEffect, più avanti ci racconteranno direttamente loro la storia), nel 2016 camminano da soli con Liquid Times, infine, pochi giorni fa, esordiscono su Touch con Elusive Balance. Sono i primi italiani scelti da Jon Wozencroft, e questo ovviamente è diventato il mantra ripetuto in ogni sede al fine di promuovere un disco che su quel catalogo in effetti sta bene: elegante, misurato, tiene conto del glitch e delle sue trasformazioni (sempre più umano, sempre meno digitale) e di altre sottocorrenti “gentili” dell’ambient che l’etichetta inglese copre. A voler essere precisi, Touch prende parte a tante iniziative, ed ecco che “Spire” (una serie vagamente basata sui suoni delle Chiese, specie dell’organo) ospita Enrico Coniglio (Songs For Ruined Days, abbastanza valido) e Pietro Riparbelli (4 Churches, registrazioni del periodo in cui come K11 dava la caccia agli spettri in alcune chiese storiche italiane). Come intuibile però, la spinta e l’attenzione ricevute dal catalogo principale sono di proporzioni nettamente maggiori, basta ad esempio vedere chi ha lanciato le anteprime dei loro video. Dato che in questi anni, per quanto riguarda l’Italia e la c.d. “musica elettronica”, ci siamo occupati anche dell’ultima cassetta dell’ultima sotto-etichetta (e non ci lamentiamo), abbiamo deciso di andare a vedere cos’ha da dirci chi ha messo a terra un progetto da festival, multimediale e anche troppo raffinato. C’è sempre qualcosa da imparare.

Questa domanda ve la faranno tutti, perché questa è la notizia che viene data (“primi italiani su Touch”): come avete raggiunto Touch?

Riccardo Giovinetto: Nel corso del 2013, dopo aver presentato la prima versione del progetto audio-video “AirEffect” a MITO Settembre Musica, la direzione artistica di un festival torinese ci propone una collaborazione con Christian Fennesz per un nuovo live-show. Dopo due anni in cui collaboriamo per vari concerti decidiamo di pubblicare insieme il nostro primo disco AirEffect, come OZMOTIC|Fennesz. Circa un anno dopo la sua pubblicazione riceviamo una mail di un appassionato, Mr. Cornel Windlin, che in seguito scopriremo essere un grafico conosciuto per aver ideato un carattere tipografico molto famoso, il quale ci scrive per manifestare il suo entusiasmo per una delle tracce di AirEffect, quella conclusiva: “Epilogo”. Nel frattempo concludiamo il nostro secondo album Liquid Times, e dopo diverse mail e in virtù di un nostro concerto a Berlino con Senking, Mr. Windlin, che allora risiedeva lì, viene a vedere il concerto. Alla fine della performance, bevendo qualcosa insieme, ci parla della Touch e del fatto che in passato ha lavorato con Jon Wozencroft, direttore artistico della Touch stessa, per dei progetti grafici.

Qualche settimana dopo ci inoltra una mail che scova nella sua passata corrispondenza con Jon in cui i due parlavano di quel brano “Epilogo”… e lo stesso Wozencroft scriveva di averlo apprezzato e acquistato… a quel punto ci sembrò inevitabile chiedergli se fosse possibile metterci in contatto; così fu… sappiamo che dopo alcune e-mail Wozencroft si confrontò anche con Christian Fennesz… questo accade due anni fa esatti. Da lì dopo uno scambio lungo e intenso di impressioni e idee nacque la produzione di Elusive Balance.

Touch ha un’identità visiva forte e al tempo stesso molto sobria. Come vi siete trovati a lavorare con Jon Wozencroft  sull’artwork del disco? Ho fatto la stessa domanda a Lustmord.

Jon ha seguito tutta la genesi del disco, con continui ascolti, confronti e ragionamenti, e parallelamente ha visto i diversi passaggi nella realizzazione di alcuni dei video che fanno parte del live, apprezzandone lo stile e i contenuti. Quindi nel momento in cui siamo arrivati a dover definire l’artwork la domanda principale che ci siamo posti è stata questa: come coniugare l’immaginario sonoro e visivo di Elusive Balance con quello della Touch? Cercavamo una sintesi tra gli elementi che volevamo fossero presenti, un bilanciamento tra elementi naturali e di matrice antropica, e ancora astrazione e concretezza… alla fine dopo aver valutato alcune proposte siamo giunti a un risultato che per noi è ottimo e Jon si è mostrato fantastico nel portare avanti la sua direzione mantenendo in forte considerazione la nostra visione e le nostre richieste.

A parte Fennesz (come intuibile), ci sono artisti sul catalogo Touch che seguite con attenzione?

Il catalogo della Touch è mostruoso: Ikeda, Philip Jeck, Chris Watson, Biosphere… sono tantissimi gli artisti che ne fanno parte e che rientrano nei nostri ascolti… e adesso si sta aprendo a una nuova generazione, con nuovi artisti e immaginari ai quali ci stiamo relazionando con attenzione e rispetto.

Altra domanda obbligatoria: perché, al momento di mettere in circolo un video, avete scelto “Being” e non altre tracce?

“Being” è per noi la sintesi perfetta del nostro percorso artistico ed è un brano emblematico dal punto di vista della nostra ricerca stilistica e concettuale: dare vita a contrasti sonori che risultino tali “solo” temporaneamente, in quanto poco consueti, e che una volta “lasciati vivere” possano trovare un loro equilibrio, una loro “armonia”. Per quanto riguarda gli aspetti visivi, “Being” segna, rispetto al progetto precedente (Liquid Times) un cambio estetico profondo, inserendo all’interno del flusso visivo elementi che superano i segni grafici precedenti e che inseriscono forme rappresentative e immaginari più concreti, spingendo anche su una forma di interazione tra audio e video più impattante, più forte, e questa evoluzione per noi è significativa.


Il tema visivo di “Being” sono gli insetti, sezionati. La traccia finale di “Elusive Balance” è “Insecting”. Molta “elettronica” più o meno “esplorativa” (per esteso anche il glitch) si aggancia al loro suono: “The Sound Of Insects” di Möslang, certe cose di Francisco López, Dave Phillips… Sono creature che spaventano per la loro alterità rispetto a noi, un po’ come il rumore rispetto alla musica. Perché sono entrati in Elusive Balance?

In quel video ci sono due mondi che si intersecano, si sovrappongono e a tratti si amalgamano diventando un unicum… ci sono insetti, alberi, foglie ma anche mappe di città, scarti digitali, circuiti… per un periodo abbiamo lavorato sugli insetti sociali e sulle loro regole di convivenza concentrandoci sui concetti di società, organizzazione e superorganismo, per poi relazionarli con il mondo contemporaneo e le sue contraddizioni… da lì nasce l’idea di inserirli all’interno del flusso di lavoro e di relazionarli con il tema principale di Elusive Balance: l’equilibrio instabile ed elusivo esistente nel rapporto tra uomo e natura.

Sul nostro sito, specie negli ultimi anni, parliamo spesso di batteristi “aumentati”: Belfi, Keszler, Greg Fox, Jason Van Gulick, Pándi, Samuel Rohrer, Guthrie… C’è chi usa software (Ableton, ad esempio), chi microfoni, effetti e acustica del luogo, ma la morale è la stessa: con le percussioni si possono fare interi dischi e tessere atmosfere pazzesche. Siete d’accordo? Ascoltate qualcuno di questi nomi?

Il nostro background si radica nel jazz e i batteristi che hanno scavato un solco nel nostro immaginario sono Elvin Jones, Roy Haynes, Tony Williams, Max Roach… tutti grandi innovatori che hanno spostato in avanti il ruolo della batteria nella musica moderna. Attualmente, con le nuove tecnologie, le possibilità sono immense e quindi riteniamo sia riduttivo parlare di “percussioni”. Sarebbe più adeguato parlare di superfici generative. I suoni che usiamo in Elusive Balance sono in gran parte suoni immaginifici, non reali, che scaturiscono da una ricerca accurata sul suono e sulla funzione che andranno ricoprire. Esiste poi una parte di suoni “reali” che vengono modificati attraverso l’uso dell’elettronica e diventano “altro” pur mantenendo la loro caratteristica sonora primordiale. Infine per ciò che riguarda le metriche, usiamo ritmi poco consueti o addirittura astratti che disegnano, attraverso polimetrie e poliritmie, dei tessuti molto complessi. Questi ritmi che noi definiamo “angolari” scorrono in modo naturale all’ascolto dando al contempo un senso di smarrimento e di solidità.

Avete per certo molti contatti nel mondo della musica dal vivo ed è evidente che volete suonare live, anche perché vi definite “audio/visual”. È comunque difficile per voi mettere in piedi un tour? Non ho in mente tanti locali italiani che si prendono il rischio dell’elettronica “d’ascolto” e non ho in mente tanti locali italiani predisposti a visuals “seri”.

Il progetto Ozmotic ha un respiro internazionale e il “mercato” di riferimento per il nostro Live Show è quello dei Festival o delle rassegne legate sia alla musica che all’arte digitale. Il mercato italiano è limitato ma esiste, ci sono diversi festival che lavorano su questo segmento di produzione artistica e in alcuni di questi abbiamo già suonato, mentre in altri stiamo per suonare, ed è molto difficile trovare le caratteristiche idonee al nostro lavoro all’interno di club o come dici tu di locali. L’acustica, l’attitudine all’ascolto del pubblico, le condizioni tecniche (PA, superfici di proiezione, proiettori, dimensioni del palco…) sono tutti elementi essenziali per il nostro lavoro…

A corollario: mi sono messo nella testa del gestore del locale e ho parlato di “rischio”, ma da semplice ascoltatore non penso che Elusive Balance sia un album difficile. Si sente quanta esperienza avete, quante diverse cose unite, ma alla fine è tutto molto fruibile, anche per l’ascoltatore casuale, che magari non sa perché il vostro nome parla di osmosi. Voi come la vedete?

Il percorso che abbiamo portato avanti in questi anni ci permesso di focalizzare gli elementi per noi essenziali della nostra estetica. La complessità timbrica e la ricchezza dei dettagli sonori ci ha permesso di semplificare a tratti alcuni aspetti e di sintetizzare degli elementi che potessero tenere l’ascoltatore all’interno di una specie di “comfort zone”. Aumentando la complessità ritmica e la varietà timbrica possiamo concedere una semplificazione melodica o viceversa, e il risultato è che chi ascolta si trova a sua insaputa all’interno di un mondo complesso che però gli appare in qualche modo consueto, musicalmente rassicurante.

Ancora a corollario: se – come la scena hardcore insegna – un gruppo non si sbatte per far suonare altri gruppi, non collabora con altri artisti, non mette in circolo musica altrui, ecco che difficilmente salterà fuori a sua volta, anche se fosse composto da geni. Voi a questo riguardo che consigli avete da dare a chi mette su un progetto?

Il mondo dell’arte e della musica sono assai complessi e competitivi e le dinamiche per le quali le “cose accadono” sono imperscrutabili ai più. Gli ingredienti sono tantissimi e non si fermano come ben sappiamo a ciò che produci, ossia alla sua qualità, ma sono di diverse e variegate nature. Noi continuiamo a pensare che il lavoro principale consista nel mettere a fuoco l’identità del progetto; e l’identità di un progetto artistico è costituita da tanti elementi, dettagli e sfumature. Un manifesto artistico, un “suono” definito, forme compositive, riferimenti culturali (graphic design, architettura, sociologia, cinema, arte contemporanea…), i concetti su cui lavorare, l’immagine, come stare sul palco… insomma un lavoro a trecentosessanta gradi.

Dove possiamo venirvi a vedere nei prossimi mesi?

Il 20 settembre suoneremo a Firenze, a ottobre ad Aosta, poi a Milano, Torino…