OvO: ascolta in anteprima il singolo “Voodoo Twerk” (+ intervista)

Domani, per Artoffact Records, esce un singolo degli OvO: “Voodoo Twerk”. Chiunque volesse sentire come suona il reggaeton messo in mano agli Ovo, è accontentato. I generi sono lì apposta perché qualcuno possa giocarci, la parola “Twerk”, invece, è un invito a riflettere sulle origini di un termine a sua volta stravolto nel tempo, solo in peggio, dice la band. Dire che non si tratti un pezzo indovinato sarebbe una bugia. Pedretti e Dorella negli ultimi anni si sono aperti alle contaminazioni con l’hip hop e altri generi come altri giganti prima di loro (ho intervistato Kevin Martin qualche mese fa, a proposito di gente che ha portato hip hop e dub in campo “estremo”, quindi fate un po’ i conti): tutto sembra funzionare bene, regalando longevità artistica a una coppia in giro da vent’anni.      

Avendo prestato cuore e braccia a Tetris (Trieste) per due-tre anni (gli ultimi della sua storia), vi ho conosciuto e ho subito imparato a volervi bene. Forse per questo inizio con una falsa domanda alla Mollica (della serie “come fai a essere così bravo?”). I vostri ultimi dischi, in cui Bruno si misura con l’elettronica, dimostrano la vostra capacità di cambiare, rimanendo voi stessi. Quanto è stata dura? 

Cambiare è un’esigenza, e farlo è tutto fuorché “duro”. L’artista dovrebbe avere una naturale spinta verso l’evoluzione. Ricordiamoci sempre “perché” iniziamo a fare musica. Lo facciamo per fare qualcosa di straordinario, che stupisca innanzitutto noi stessi, che ci opponga alla routine e all’omologazione. Ovviamente bisogna essere in grado di sentire cosa è forzato e cosa è necessario. L’inserimento dell’elettronica è stato piuttosto organico, avevamo già fatto molti album e un’infinità di tour con il set di batteria in tre pezzi, che sono poi i tre suoni fondamentali: bum, cha, tzz. Da quello si può far tutto. Però a un certo punto ci sembrava di ripeterci, e allora abbiamo inserito il charlie e l’elettronica nella batteria di Bruno, così come certi effetti a pedale hanno cambiato di molto il suono della chitarra di Stefania.

Cade il vostro ventesimo compleanno. Credo che la prima recensione di un vostro disco (a firma di un altro) che ho impaginato sia di quindici anni fa (altri siti, altre storie). In questi anni sono sceso spesso a compromessi, ho messo molta acqua nel mio vino e sono venuto meno a un sacco di miei principi. Voi?

La leggenda per cui “nel momento in cui esci dalla cantina hai già fatto un compromesso” ha una sua verità. Logicamente non siamo più lo stesso gruppo che faceva improvvisazione totale nel 2001, invitando chiunque a salire sul palco e a suonare con noi. Però crediamo che basti ascoltare due minuti di un nostro disco, leggere le nostre interviste o leggere certe recensioni tedesche dei nostri album per capire che non siamo uno dei gruppi che si è sputtanato di più e che siamo rimasti il più fedeli possibile ai nostri principi.

Senza usare Google, ho pensato tra me e me che il twerking più visto della storia doveva paradossalmente essere quello della bianchissima Miley Cyrus (davanti a quel cantante pop bianco che ha fatto milioni plagiando un pezzo di Marvin Gaye, perché tutto torna). Poi ho cercato su Wikipedia e ho letto che il termine “twerk” fu aggiunto al dizionario Oxford Dictionary Online nel 2013 “quando la pop star statunitense Miley Cyrus eseguì un controverso ballo twerking agli MTV Video Music Awards”. Mi son detto: certe cose esistono per i bianchi solo se sono i bianchi a farle. Voi siete bianchi, vorrei una vostra riflessione su questo, anche se non basterebbe un libro.

Cercando di andare per ordine: è vero che nel twerking tutto è cambiato dopo l’esibizione di Miley Cyrus. E la “appropriazione” di elementi della cultura africana da parte dell’establishment culturale bianco in qualche modo li “sdogana”. Tu stesso citi l’Oxford Dictionary come sinonimo di autorevolezza. Ma il termine esisteva prima. E volendo non è nemmeno il termine giusto, perché è un termine americano. Bisognerebbe usare il termine africano. Ma allora cosa ne sarebbe del “twerking” delle culture latinoamericane, che si sviluppò in tempi altrettanto arcaici di quello africano? Nota infatti che sopra abbiamo scritto “cultura africana”, non afroamericana. Perché la cultura afroamericana è popolare in quanto “americana”, più che in quanto “afro”. Cioè, è il “mercato” americano bianco a renderla di moda. E torniamo all’egemonia culturale bianca in un batter d’occhio. Se hai visto il documentario sui Beastie Boys, ti rendi conto di come le cose siano intricatissime. Il mercato del rap, gestito da manager di colore, fiutò il potenziale commerciale di un gruppo rap di bianchi. Così nacque il successo dei Beastie Boys. Uno dei grandi temi che dovrà affrontare la controcultura nei prossimi anni sarà proprio quello dalla “cultural appropriation”. Gente come noi, che si considera apolide e che certamente non sostiene l’egemonia culturale bianca, americana, occidentale e patriarcale, si troverà costretta a giustificarsi o a essere attaccata per aver mischiato diversi elementi culturali. Questo ci verrà rinfacciato in quanto “bianchi”. Sembra un cane che si morde la coda. Noi siamo per tutte le spinte ad aprirsi e a contaminarsi nell’arte. Le chiusure, se si eccettuano certi elementi segreti e misterici che esulano da questo discorso, portano solo alle brutture dell’endogamia.

Abbiamo intervistato Bruno in veste di curatore di Transmissions IX, quando portò in cartellone anche Mykki Blanco e Moder. Quattro anni fa. Oggi Miasma e questo colpo di coda. Cosa ritenete di aver imparato dal mondo dell’hip hop e dal rap?

A noi la musica interessa tutta. Che sia barocca o rap o rituale o breakcore. Tutto ciò che è fresco, “vero”, ci colpisce. Se ascolti alcuni spoken word (pensa a Linton Kwesi Johnson o Moor Mother, ma anche a certe cose di Dylan), non capisci più dove sta la differenza tra canzone, rap e poesia. Ed è bene che sia così, dovremmo riscoprire il “ritmo” della parola, la parola come strumento, non solo come contenuto (non per niente Stefania non ha quasi mai testi di senso compiuto). Questa è la prima cosa che ci colpisce del rap. E poi le basi, il concetto di campionamento, il dj che suona al posto della band, tutte cose dirompenti e rivoluzionarie, spesso avversate dagli stessi musicisti (“il rap non è musica”, l’abbiamo sentito dire tutti). Di nuovo, ricordiamoci perché abbiamo iniziato a suonare. Seguivamo le gesta di Crass, Suicide, Throbbing Gristle, Wretched, Napalm Death. Gente che “disturbava” con il suo messaggio, con la sua estetica, con la sua musica apparentemente cacofonica. Tutte le grandi rivoluzioni musicali hanno dovuto subire questo tipo di discriminazione, e quasi sempre hanno vinto. Pensa alle fischiatissime “prime” di alcuni capolavori della musica classica, a cui il pubblico semplicemente non era preparato, o al jazz (e poi al free jazz, attaccato dagli stessi jazzisti: Ornette Coleman veniva spesso tirato giù dal palco e cacciato dai locali). Persino Astor Piazzolla venne minacciato fisicamente a causa delle innovazioni che stava portando nel mondo del tango…

Quest’epidemia ha ucciso i live. Se verranno imposte misure di sicurezza troppo costose, i posti piccoli forse non riusciranno a mettersi in regola. Vista la vostra storia pazzesca come live band, è inevitabile chiedervi cosa vi passa per la testa.

Dubitiamo fortemente che i live muoiano. Forse cambieranno. Ma è sempre stato così, è la storia. La musica dal vivo nasce nelle piccole comunità tribali, si biforca poi tra rituale e ludica, quest’ultima di divide poi in “alta” (scritta, complessa, riservata ai saloni delle classi colte) e “bassa” (popolare). Ma fino all’invenzione della radio e poi del disco, la musica continuò a svolgersi a livello locale, e per molti anni ancora i gruppi itineranti furono considerati poco più che degli sbandati. Il concetto di “tour” come lo intendiamo oggi (se si eccettuano esempi elitari tipo Mozart) è molto recente nella musica occidentale. Mentre in altre culture la musica continua tuttora a essere una forma di comunicazione e di rito. La consuetudine di fissarla su un supporto ed eventualmente presentarla al pubblico sotto forma di concerto non appartiene a tutte le culture musicali. Quello che intendiamo dire è che siamo artisti, e se da una parte speriamo vivamente di poter riprendere a fare i nostri concerti e i nostri tour in giro per il mondo, dall’altra dobbiamo anche essere capaci di “surfare” i cambiamenti. Altrimenti, di nuovo, ci siamo dimenticati perché abbiamo iniziato a farlo. Negli anni abbiamo trovato una routine che funzionava. Bene, adesso cosa vogliamo fare? Perpetrarla all’infinito, aggrapparci a essa perché ci permette di mettere a tavola la minestra? Cerchiamo invece di capire come continuare a fare musica nella nuova realtà. Se ci piace ci adatteremo, se non ci piace troveremo sacche di resistenza. E facciamoci anche delle domande. Per esempio, chi dice che la musica non inquina, mente. Noi, come tanti altri gruppi, facciamo centomila chilometri all’anno per portare in giro i nostri amplificatori, la nostra batteria, il nostro merchandising. Ci raccontavano che non era tanto l’uso individuale dell’auto a inquinare, ma la grande industria, gli allevamenti, i riscaldamenti. Tutto vero, ma ora che ci siamo fermati tutti l’inquinamento è sceso molto e il pianeta respira. Vogliamo far finta di niente?

Anche la situazione dei piccoli locali è molto complessa. Si è visto chiaramente in questi mesi che in Italia il discorso culturale e musicale è fermo al patrimonio storico, e non si è in grado di prendere alcuna iniziativa sul contemporaneo, su ciò che di vivo succede oggi. Se da un lato può essere l’occasione per avere finalmente un cambiamento a livello istituzionale, dall’altro dobbiamo anche dire di provare più diffidenza che speranza al riguardo. Sperando di essere smentiti, immaginiamo lo scenario opposto: molti piccoli locali dovranno chiudere. Beh, potrebbe essere l’occasione per tornare agli squat e ai CSOA. Molti dei locali in cui oggi suoniamo regolarmente, vent’anni fa sarebbero state occupazioni illegali. Se saranno obbligati a tornare a esserlo, noi saremo con loro.