OREN AMBARCHI, Hubris

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Negli ultimi anni Oren Ambarchi ha intrapreso uno studio sul ritmo in quanto movimento. Fino ad ora gli sforzi dell’artista australiano hanno portato alla luce la matrice ossessiva ed ossessionante della ripetizione: i precedenti Sagittarian Domain e Quixotism vivono in ecosistemi quasi antitetici, accomunati però da una certa propensione all’utilizzo ipnotico della cadenza.

Non nuovo a collaborazioni con musicisti di grosso calibro, Ambarchi unisce le forze con una sorta di all star game della musica “di ricerca” (in ordine alfabetico: Crys Cole, Mark Fell, Will Guthrie, Arto Lindsay, Jim O’Rourke, Konrad Sprenger, Joe Talia, Ricardo Villalobos, Keith Fullerton Whitman) per quest’ulteriore riflessione sulle potenzialità del ritmo. Hubris, va detto, fortunatamente non risente del peso delle individualità coinvolte, ma permette di gustare il prodotto di una conricerca portata avanti da musicisti che hanno condiviso e messo in gioco i rispettivi stili per dare vita a un lavoro che apporta un contributo significativo all’indagine di cui è oggetto.
Il primo movimento del disco permuta e stratifica chitarre stoppate, e crea una superficie concettuale in cui ogni elemento è una tensione differenziale che fa respirare la composizione e ne ridefinisce costantemente i confini e il tono.
Dopo un breve interludio che serve quasi da tramezzo, il gruppo si lancia in una jam carica di nervosismo controllato, in cui viene sacrificata parte del sincretismo assoluto della prima suite in favore di un totale abbandono alla percussione e alla frenesia che è in grado di indurre: una coppia di batterie sorregge un ciclo di improvvisazioni che si completano a vicenda nella loro capacità di raccontare ognuna la propria prospettiva sulla creazione propulsiva di cui l’ensemble è capace.

Quella di Hubris è una musica della continuità, che mette in risalto l’energia del ritmo e che rimane nello spazio nero tra i fotogrammi della pellicola dei film, unico vero punto di movimento delle immagini che li compongono.