Økapi: karaoke a Porta Portese

Karaoke, dall’unione tra la parola giapponese kara (空 ,vuota) e il termine ōkesutora (オーケストラ, orchestra). Se i giapponesi provano vergogna nel cantare e il karaoke è il momento in cui possono appagare il loro bisogno di esprimersi, non possiamo certo dire che una sana attitudine sfacciata, mescolata ad alti tassi di proteina eclettica nel sangue, manchi a Filippo Edgardo Paolini, in arte Økapi, vero e proprio uomo orchestra senza strumenti, capace di far cantare le macchine, di far compiere torsioni ai rigidi circuiti di silicio, un mago dell’arte ricombinatoria del cut-up e del sample. Il suo ultimo lavoro, Otis Vertical Tales, è un lussuoso libro con allegato cd pubblicato da Folderol Records/Edizioni Kappabit, con immagini digitali curate da lui stesso e che restituiscono un’idea di muzak lieve, filosofica, sottilmente allucinata ed ironica, come un fumetto da mondi paralleli, ce lo restituisce in forma scintillante dopo i fasti del disco dedicato a Messiaen. Plunderphonia, audioblob, collagismo, audiozapping, cinema per l’udito, chiamatelo come preferite, ma accostate l’orecchio, vi si scoperchierà un vero e proprio vaso di Pandora.

Mi racconti il tuo primo raccordo musicale? 

Økapi: La musica è stata una presenza costante in tutta la mia esistenza. Le prime sensazioni sonore sono legate alla musica diffusa per casa, i vinili di mia madre su un vecchio giradischi Philips. Tanta musica classica e canzoni francesi, Barbara e Gilbert Becaud tra i molti. Il mio primo concerto live a 5 anni, i Jackson Five alle Bermuda, dove la mia famiglia si era trasferita e dove ho trascorso i miei primi anni di vita.

E invece cosa stai ascoltando in questo periodo?

Come al solito, veramente di tutto. In questo periodo di permanenza forzata casalinga mi sono perso ancora più facilmente di playlist in playlist. Se devo fare dei nomi, tra le produzioni recenti a cui ho dedicato più di un ascolto ci sono il giapponese Meitei e il francese Morusque. Del primo mi affascina l’inespressionismo zen e del secondo la giocosità. Entrambi sono facilmente reperibili su Bandcamp.

Sul tuo sito ci sono alcune definizioni deliziose tra cui idiot pop: ricordo anche alcune compilation Slap Press da te curate e assemblate con musiche folli. Dove e come le scovi?

Mi citi produzioni che appartengono ad un passato piuttosto lontano. Con la Slap-Press ho iniziato a curare le prime compilation già nel 1989 e ho smesso di crearle e distribuirle nei primi 2000. Appartengono a questo filone anche le audiocassette della serie “Children Workshop Television”, che qualcuno conserva ancora in formato cofanetto. Era un periodo di vera iperattività nel reperire materiale sonoro bizzarro (e non solo) nei mercatini italiani ed europei, ma anche durante i miei viaggi intercontinentali. Era forte anche la complicità di amici e collezionisti. Tieni presente che, pur essendo anni pre-internet, con una buona dose di tempo e ostinazione potevi trovare cose un po’ ovunque, soprattutto vinili. Gli acquisti settimanali al mercato di Porta Portese sono stati in quegli anni meravigliosi!

Mi spieghi l’idea dietro a questo disco? Ero rimasto ai canti degli uccelli di Messiaen e ora invece saliamo in ascensore. Cosa hai usato e come hai lavorato?

Rispetto ad altri progetti questa volta ho operato in un modo per me meno convenzionale, realizzando – con la complicità del videoartista Simone Memè – anzitutto dei piccoli clip video, storie di ascensoristi e portieri, e componendo e intarsiando la colonna sonora intorno alle loro immagini. Di fatto queste clip hanno agito come pure suggestioni personali ritmiche e compositive ma non verranno mai rese pubbliche. La musica vive da sé. Inoltre, per quel che riguarda il lavoro prettamente sonoro, questo è un progetto decisamente più composto e non dichiaratamente plagiarista. Ho poi voluto procedere e approfondire il viaggio in ascensore dal punto di vista grafico, così è nato anche un libro illustrato (con cd annesso).

Una curiosità: la sigla di Wikiradio è tua? Mi racconti del tuo peregrinare nel mondo come dj? Aneddoti, scene, quel che vuoi. E del tuo lavoro “ufficiale”?

Sì, la sigla di Wikiradio è mia: si chiama “Bah!” ed è stata composta per una netlabel (comfortstand.com) ben 17 anni fa! Per quanto riguarda la mia attività come dj, sono sempre stato un frequentatore di situazioni più o meno legate alla dance, suonando le prime volte in ambiti side-tekno nei free party e poi nei grandi festival all’aperto. Ho sempre cercato nuovi spazi dove trovare la libertà di suonare quello che volevo. Devo ammettere che questo mi ha creato non pochi problemi suscitando anche un certo pregiudizio in settori di genere musicale più ortodosso, specie se colti o extracolti… Avendo cercato di curare negli anni un’attività lavorativa parallela e autonoma anche economicamente dalla musica (sono tuttora grafico), questa mia ostinazione nel propormi fuori contesto ha permesso di farmi conoscere anche e soprattutto per quello che sono, raggiungendo nel tempo anche un certo successo di palco.

Improvvisare con le macchine o con i sample: chi, come, quando, dove, perché? Ricordo un paio di dischi molto interessanti, a nome Dogon. Come diceva Quèlo, la risposta è dentro di te, però è sbagliata?

Quando lavoravo a progetti come Dogon, con Massimo Pupillo e Maurizio Martusciello, o con altre formazioni, il mio approccio era ancora molto free/impro, suonavo con i vinili in maniera decisamente più fisica ma tutto era spesso lasciato all’imprevedibilità del gesto musicale. Ora il mio riciclo sonoro è più orientato alla combinazione, alla ricerca, all’assemblaggio. Complice l’età, dedico molta più attenzione al tempo compositivo. Tuttora continuo maniacalmente a isolare e collezionare sample. Questa ossessione ha contribuito negli anni a rinforzare il numero dei componenti della mia orchestra virtuale, quella che ho chiamato la Aldo Kapi Orchestra, che compare in numerosi miei album.

Si avverte sempre una bella leggerezza – che definirei calviniana – nella tua musica. Al di là dei suoni più disparati, cosa ti ispira, cosa accende la tua curiosità, cosa vuoi comunicare a chi ti ascolta?

Mi piace molto questa tua associazione a Calvino. Sono sempre stato attratto dalla complessità e dalla singolarità ma vorrei sempre lasciare aperta la porta dell’accessibilità dell’arte semplicemente in nome di una mia personale idea di bellezza. Non in termini astrattamente programmatici. Prima di tutto in ciò che faccio mi piace avvertire e restituire piacere.

Progetti in cantiere, cantieri in progetto?

I progetti in mente sono sempre infiniti! Nascono in genere soprattutto la notte prima di addormentarmi e diventano o diventeranno reali nei periodi più disparati. Oppure no! Mi piacerebbe realizzare un giorno un’opera partendo dalla musica del compositore francese Francis Poulenc, un amore costante negli anni. Sto lavorando da parecchio tempo intorno alle composizioni microtonali di Ivor Dareg per realizzare qualcosa di inaudito intorno a melodie così difficili e oblique, quasi al limite dell’ascoltabilità. È una nuova sfida che prenderà forma lentamente…
Ora sto perfezionando il live audio/visual di Otis e per la prima volta questo mi vede coinvolto nel trattamento di immagini in movimento.

Se ti commissionassero una (nuova) colonna sonora di un’opera già esistente, che film/regista sceglieresti?

È forse scontato dirlo ma lavorerei con l’intera filmografia di Jacques Tati!
Chissà, probabilmente è un oltraggio dirlo, ma mi piacerebbe anche lavorare su “Jacquot de Nantes” del ‘91, un meraviglioso omaggio di Agnes Varda al defunto compagno regista Jaques Demi. Oppure sarebbe sicuramente divertente ri-sonorizzare il bellissimo corto “Aprile” di Otar Iosseliani.