Notizie dal diluvio #8 – il fascino indiscreto dell’improvvisazione

“Basta una serie di note. Il resto è improvvisazione” (Jimi Hendrix)

SATOKO FUJII TOKYO TRIO, Moon On The Lake (Libra Records, 2021)

L’instancabile Satoko Fujii, di cui abbiamo già parlato qui e qui, torna sull’etichetta personale Libra Records con un disco in classico assetto di piano trio, accompagnata da due musicisti più giovani di lei ma ben capaci di tenere testa al suo fare vulcanico. Takashi Sugawa a contrabasso e violoncello e Ittetsu Takemura alla batteria sono gli altri vertici di un perfetto triangolo scaleno dove l’approccio irruento sulla tastiera trova risposte nelle sincopi e nelle scomposizioni della sezione ritmica. “Hansho” ci ricorda in apertura come mai la nostra sia stata chiamata “il Duke Ellington del Free Jazz”: figure ritmiche dense di groove, ombre di Novecento (a me è venuto in mente anche Matthew Shipp, un altro che si abbevera alle fonti classiche per arrivare altrove), melodia, furore, al servizio di un discorrere sempre fluido ed estremamente naturale. Più astratta ed enigmatica “Wait For The Moon To Rise”, a cercare soluzioni dentro la tastiera, sullo strapiombo del silenzio. Fulcro del disco sono i diciotto minuti di Aspiration, rivisitazione di una traccia già presente in un disco in quartetto del 2017 con Wadada Leo Smith, Natsuki Tamura e Ikue Mori: prima il pianoforte ci porta a spasso nella tempesta, poi il violoncello calma i marosi, conducendoci lontano, dove non si intravede più terra: si procede come in un viaggio in galeone per immagini, illuminazioni, splendidi incubi, fino alla fine. “Keep Running”, come da titolo, è un invito al movimento, straripante energia ed invenzione, con la batteria in bella evidenza per verve ed inventiva con un solo iniziale scoppiettante e narrativo, ad aprire poi il sipario su un groove astratto di contrabbasso che ipotizza figure a svanire subito nell’ombra: il piano poi aggiunge grammi di perfetto caos al caos già esistente. L’acrobata resta in bilico sulla corda tesa molto in alto ed anche questa volta non cadrà, oppure cadrà ma nessuno si farà male. Chiude la title­-track, e sono ancora richiami alla luna, riduzionismi, licantropia, poesia, espressionismo, vocabolari espansi e un ritorno breve ad un fare lirico e tematico che allarga il respiro. Un altro bel disco per la torrenziale pianista giapponese, con il bonus di due accompagnatori che non si limitano solo ad accompagnare ma danno un contributo personale e creativo davvero ottimo. 

LINA ALLEMANO FOUR, Vegetables (Lumo Records, 2021)

Un nome nuovo alle orecchie di chi scrive è quello della trombettista di Edmonton, Canada (ma di stanza tra Toronto e Berlino), Lina Allemano. Attiva in varie formazioni, nel 2021 sulla personale etichetta Lumo Records ha pubblicato due lavori, Proof del progetto Bloop, un duo basato sul live processing del suono della sua tromba con Mike Smith, e questo Vegetables, del quartetto tautologicamente chiamato Four con Brodie West al sax alto, Andrew Downing al contrabbasso e Nick Fraser alla batteria. Un disco a fuoco, calibrato e senza battute d’arresto, da qualche parte tra lo swing ultraterreno di Peter Evans (anche se qui le cadenze sono assai meno frenetiche e il timing è più rilassato e largo), le esplorazioni ambient di Nate Wooley, l’avant spettinato e innodico di Jamie Branch, il tutto condito da una buona dose di personalità e da una bella grafia sullo spartito, con ampi frangenti lasciati all’improvvisazione e all’ottimo interplay tra i musicisti (il quartetto è in piedi da parecchi anni, la macchina è rodata e si sente). Le composizioni sono agili e sghembe, avventurose senza essere ostiche, coinvolgenti e a tratti anche travolgenti. Una bella scoperta.

LUIGI LULLO MOSSO, MASSIMO SIMONINI, VINCENZO VASI, Fuoriforma (I Dischi Di Angelica, 2021)

Ennesimo documento alieno e imprendibile da quella fucina inesauribile di creatività non allineata che risponde al nome di Angelica Festival (ogni anno in quel di Bologna, con appendici anche nel resto dell’Emilia) ed etichetta con il nome didascalico di Dischi di Angelica. L’antro delle bizzarrie presidiato da Massimo Simonini ci regala una perla grezza e preziosa: come spiegato (?) nelle come sempre visionarie note dallo stesso Simonini, l’idea a cui ruota attorno il disco è quella del jukebox e/o del fake karaoke, in altri termini suonare in modalità random frammenti di dischi su cui poi cantare improvvisando. Su questi fruscianti fondali di memorie riconosciute e sconosciute fioriscono invenzioni a più voci che restituiscono una sorta di avant/musical lunare e sghembo, tutto schizzi e abbozzi, come se la manopola di una radio anni Cinquanta non riuscisse a restare sintonizzata su una stazione e vagasse continuamente, tra fantasmi di exotica, canzoni istantanee, acrobazie, memorie polverose da scantinato, briciole di memoria, tastiere da rigattiere, library music allucinata, lampi melodici popolari e satori deliranti (“Come tu, candida come un moscerino”, “E poi hai messo le tue scarpe nel mio caso”): ottanta (!) tracce per un’ora abbondante di inno alla libertà di chi traffica lontano anni luce dai territori terrestri dell’ovvio e del prevedibile. Voci, dita, oggetti, contrabbasso (Mosso, ricordiamo il suo solo con il cosiddetto mototrabbasso), cassette, vinili, cd, giocattoli, fischietti, vibrafono, liriche improvvisate sul momento e carrettate di inventiva anarchica e spettinatissima, con una leggerezza da Carosello in fungo (che è un po’ la cifra riconoscibile del lavoro di Vasi) e che fa riaffiorare memorie giapponesi o di un disco geniale e dimenticato come Sprut di Giustino Di Gregorio, su Tzadik. Sessioni registrate un secolo fa (eravamo ancora nel XX secolo!) e giustamente riportate alla luce. Un altro disco da ascoltare a volume alto e a finestre spalancate per fortificare la convinzione della mia dirimpettaia di avere un vicino un po’ pazzerello, ed una collezione di (im)perfette ipotesi di avant/canzoni scanzonate che piacerebbe (e questo è un grande complimento, per me) moltissimo ai bambini piccoli. La bellezza insuperabile del frammento.

ACHIM KAUFMANN / IGNAZ SCHICK, Altered Alchemy (Zarek, 2021)

IGNAZ SCHICK / OLIVER STEIDLE, Ilog2

Celebrano i vent’anni della Zangi Music/Zarek questi due dischi del guastatore Ignaz Schick (giradischi, sampler, live electronics), in duo con il pianista Achim Kaufmann (piano a coda e oggetti) nel doppio Altered Alchemy ed in conversazione con il batterista (anche a percussioni, sampler e kaosspad) Oliver Steidle. Come da titolo, il primo dei due lavori presi qui in esame indaga le mutazioni, i cambiamenti di stato della materia: un vero e proprio viaggio negli anfratti più reconditi del suono, tra microbiologia, speleologia, elettroacustica e psicologia, con una cura molto profonda del dettaglio ed una musicalità intima e ctonia. Un lavoro certo non facile, ma capace di offrire spigoli inediti a chi avrà la pazienza di lasciarlo entrare sottopelle, come un veleno necessario. Le interferenze di Schick danno nuove prospettive al pianoforte sparso e pensoso di Kaufmann; entrambi frugano nell’abisso e nelle nostre viscere, come gli avvoltoi negli intestini di Prometeo. Un che di arcaico e corrusco pervade tutto il lavoro, due cd che racchiudono otto alterazioni (così hanno nominato le tracce), per tentare la difficile arte della sparizione.

Meno austero e più urbano il disco con Steidle, tra nevrosi illbient (non siamo così lontani da certe pagine di Dj Spooky, ad esempio in “There Is No Escaping”), fughe in avanti verso imprecisati, indicibili altrove, groove astratto, lieve e densissimo, sincopi, agguati in apnea (“Using The Secret”, enigmatica e minacciosa) e a dire il vero anche qualche prolissità (a volte la frenesia ritmica è eccessiva, un po’ lo stesso effetto che mutatis mutandis mi fecero i Don Caballero quando li vidi dal vivo: di tanto inseguire, battere e ribattere alla fine restava poco) e le ombre di Christian Marclay e Philip Jeck ad annuire sullo sfondo. Schick è comunque musicista dotato di una spiccata personalità e dall’inventiva fertile, e questo è un disco ispirato e scoppiettante, capace di declinare i concetti di epilessia, balbuzie e aritmia in dodici prototipi selvatici e scintillanti. Sarei curioso di poterli vedere dal vivo: quest’anno partecipano a Jazz em Agosto, a Lisbona (qui il programma, sontuoso come sempre), sono anni che lo punto, ma temo che anche a questo giro resterà una chimera.

GIANNI LENOCI / FRANCO DEGRASSI, Nothing (Setola Di Maiale, 2021)

Un altro doppio ed un altro dialogo tra pianoforte e oggetti. Stavolta i protagonisti sono il compianto Gianni Lenoci, straordinario musicista pugliese scomparso nel 2019, e Franco Degrassi, responsabile dei live electronics e dei corpi sonori. Due lunghe sessioni di improvvisazione per pianoforte e oggetti con l’utilizzo di microfoni a contatto e computer per processare in tempo reale il suono di un vecchio disco di Lenoci. Il disco, ostico e definitivo nel suo incedere feldmaniano tra ombre e ansie, tra ruggine ed una perenne, inesorabile tensione che cova sotto la brace del (quasi) silenzio, è semplicemente magistrale. Impossibile raccontare in modo descrittivo quanto si ascolta, bisognerebbe lasciarsi andare alle metafore per restituire il mistero di una conversazione che pare convocare le divinità del cielo e della tempesta, radunando una coltre spessa di nuvole da cui piovono musiche del Novecento e di un tempo che non sappiamo né forse mai sapremo dire. Conoscevo Lenoci (l’ho anche intervistato, qui https://www.alfabeta2.it/2018/12/09/immaginare-la-musica-intervista-a-gianni-lenoci/ ), invece Degrassi è, come Lisa Alemanno di cui dicevo sopra, una scoperta per me. Molto interessante e personale nel vocabolario e nel repertorio timbrico messo in atto, dimostra di saper dialogare liberamente con un gigante come Lenoci, dando ulteriore profondità agli abissi scandagliati dai tasti bianchi per questa musica nera come una notte senza ritorno. Vorrei dire altro di un lavoro difficile e bellissimo, ma resto ammutolito di fronte al mistero eleusino della musica nel suo farsi e disfarsi; come scriveva Giorgio Caproni, “Le parole. Già. Dissolvono l’oggetto”. Un disco schivo, come i due musicisti che ne sono protagonisti, un documento prezioso e marginale e prezioso proprio perché cocciutamente marginale, un carillon dai fondali marini dove il tempo si curva e diventa Apocalisse, pubblicato non a caso da Setola Di Maiale: una esplorazione ai confini del vuoto e del nulla, come da titolo, condotta con magistero e passione, nella consapevolezza del nostro destino muto di pietra e polvere.

JOËLLE LÉANDRE, Beauty/Resistance

Altra etichetta che ama indagare i margini (d)e(l)la musica creativa è la polacca Not Two Records, che pubblica questo sfizioso triplo della grande contrabbassista francese, in vari assetti assieme al batterista Zlatko Kaučič (ne abbiamo parlato qui), a Mateusz Rybicki (clarinetto), Zbigniew Kozera (contrabbasso) e Rafal Mazur (basso acustico). Registrato durante la residenza artistica della Léandre nell’ambito del Krakow Jazz Autumn Festival del 2019, il disco è un ottimo documento, affilato e senza compromessi, dello stato dell’arte della musica improvvisata colta nella sua nudità: strappi, rimbrotti, grande attenzione al suono ed alla dinamica, nessun tema da serbare nella memoria ma ogni volta un addentrarsi dentro caverne che svelano nuove prospettive, nuovi angoli, tra sincopi, sussulti, singhiozzi cosmici, attese ed agguati. Musica che va vista sul palco, mentre prende letteralmente vita: alzare il volume dei tre cd e lasciare che il suono, libero e scabro, prenda possesso della stanza, può essere un ottimo surrogato.