Notizie dal diluvio #6

foto di Pietro Bandini – Phocus Agency

La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri (Gustav Mahler)

A questo giro la rubrica a cadenza eventuale “Notizie dal diluvio” si concentra su cinque uscite del 2020 di una etichetta che mantiene sempre uno standard alto: Intakt, da Zurigo.

SYLVIE COURVOISIER TRIO, Free Hoops

Terzo disco per il trio di Sylvie Courvoisier con Drew Gress al contrabbasso e Kenny Wollesen a batteria e strumenti autocostruiti, ribattezzati per l’occasione Wollesonics. Free Hoops raccoglie nove composizioni della pianista svizzera ancora una volta in ottimo equilibrio tra spigoli e languori. Il mood è austero, sorvegliato: figure melodiche oblique appaiono come fantasmi tra notte e nebbia, per poi mutare subito forma non appena l’orecchio le ha afferrate. C’è un ordine decifrabile – ma che resta misterioso e felicemente ambiguo – in queste strutture libere e rigorose, affilate e vaghe, sostenute da un interplay che lascia spazio ai silenzi e ai vuoti, in un dialogo che ha quasi del telepatico tra i tre musicisti. Dalla scalata verso le cime ripide e impossibili della title-track al carillon post-minimalista di “Lulu Dance”, l’album suona ispirato e completamente a fuoco, densissimo e lieve, grondante storie da raccontare che non saprai memorizzare e perciò sarà il caso, arrivati in fondo, di ripartire da capo. Ogni traccia apre mondi: segnaliamo qui i palpiti feroci e celesti di “Just Twisted”, dedicata a John Zorn, e le creature alate evocate in “Birdies Of Paradise” (Messiaen al Blue Note?). Interpreti magistrali, scrittura nitida, pezzi che non hanno nemmeno un filo di adipe addosso, essenziali e scattanti, mutevoli e luminosi, scuri e filosofici, gravidi di uno swing tutto mentale, intimo, inesorabile e imprendibile. A metà tra strada tra cielo e precipizio, come un acrobata.

ALEXANDER VON SCHLIPPENBACH, Slow Pieces for Aki – Piano Solo

Partiamo per una volta dalle note di copertina (non è nostra abitudine farlo): un modo per entrare dentro questa musica senza scendere troppo nei dettagli comincia con la storia della sua creazione. Il pianista da solo con il pianoforte, due giorni in studio di registrazione. Un ritiro a Zurigo. L’attenzione è tutta sul momento, la registrazione sta andando. Un anno per preparare le nuove composizioni, una vita per intonarsi alla musica. Lo stimolo per questo splendido disco nasce dalla partner di Schlippenbach, la pianista giapponese Aki Takase che ha chiesto a se stessa e al compagno se il free debba essere per forza di cose sempre così intenso, rumoroso, veloce. Il musicista tedesco è stato spesso interprete di un approccio di questo tipo, ma qui ci svela una faccia totalmente differente della sua arte, illuminata da un pianismo capace di coniugare l’incedere sghembo di Monk con le asperità di Schonberg, uno swing corrusco e a tratti malmostoso con lampi matematici e nitidi, in un equilibrio perfetto tra astrazione e visione, tra viscere e nuvole. In alcuni frangenti (la magnifica “Tell You”) pare quasi di ascoltare un Duke Ellington alle prese con un allunaggio su un nuovo satellite; lungo tutto il lavoro, ad ogni modo, equamente diviso tra scrittura e improvvisazione, tutto suona necessario, meditato, vero, intatto e delicato come il verde di una foglia circondata da una neve tardiva (l’iniziale “Haru No Yuki”). Come orme di visioni ragtime sepolte dall’inverno della contemporaneità, figure che un tempo sarebbero state colme di groove o di languori blues e ora custodiscono nel silenzio il loro nucleo pulsante, un gheriglio protetto da un guscio austero che svela, ancora di più, nascondendola, proteggendone il cuore intimo, la poesia di un disco luminoso e illuminante.

OM, It’s About Time 

Ormai è ora di smettere di credere che la realtà sia solo ciò che si vede; è ora (lo è da sempre) di lasciare che i suonatori concedano migrazione, vertigine. Chi confonde musica e divertimento non troverà pane per i suoi denti in quest’ora di musica scura e scontrosa, chi invece chiede al suono un’esperienza, chi ancora ascolta senza fare altro, aspettando che il fiume acustico lo porti da qualche parte, chi vive la fruizione di un disco come un viaggio dalla sala al cosmo senza ritorno, si perderà con voluttà in queste otto tracce. Urs Leimgruber al sax soprano, Christy Doran a chitarra elettrica e device, Bobby Burri al contrabbasso e ai device, Freddy Studer a batteria: percussioni e metalli suonati con l’archetto rovistano tra le rovine in cerca di pagliuzze d’oro e con la visione dei rabdomanti strappano a queste terre desolate otto rituali rauchi, metallici, grondanti di elettricità e piogge acide. Un lavoro che non lascia nemmeno un millimetro di spazio al facile ascolto e spinge il pedale su timbri aspri e acuminati, con un uso delle dinamiche iper-espressivo ed una capacità notevole di dare vita a ferraglia arrugginita raccattata in discarica. Non ci saranno architetture ritmiche né orme di  melodie da ricordare, alla fine della traversata in questo deserto boreale e post-apocalittico: tutto svanirà nella polvere, perché polvere siamo e polvere torneremo. Ancora capaci di imboccare vie che non portano in nessun luogo preciso (i sussurri ctoni di “Nowhere”) pur avendo cominciato ad attentare al galateo quasi cinquant’anni(!) fa, OM sono ancora maleducati, spettinati e selvatici, quanto basta per farci appassionare ad un disco perfetto per affrontare con ironia questi tempi tragici (“Covid-19 Blues”) e per svegliare di soprassalto il vicino di casa che credeva di dormire il sonno dei giusti (l’attacco metallico di “Fragments”).

Un incontro illegittimo e quindi benedetto tra gastriti industriali, fuliggine post-punk, free informale e rock pestone: nel tempo della soglia dell’attenzione a otto secondi e nell’era della fine delle sinfonie, una valida alternativa a Ludovico Van come terapia contro l’ultraviolenza per novelli Alex (non lo sono un po’ in fondo tutti quelli che credono che con la musica ci si debba solo divertire?).

CHARLOTTE GREVE, VINNIE SPERRAZZA, CHRIS TORDINI, The Choir Invisible

Totalmente diverso il mood di questo lavoro registrato in una giornata a Brooklyn 2018. I toni sono soffusi, crepuscolari, la scrittura è classica (Rollins, Ayler, Coleman) senza essere troppo calligrafica, ma i pezzi faticano a restare in testa. L’altosassofonista tedesca, trapiantata a New York, ha un suono personale e caldo, la sezione ritmica formata da Tordini al contrabbasso e Sperrazza alla batteria danza con maestria, i pezzi abitano terre di mezzo sfuggenti, anche se a volte la scrittura non pare pienamente a fuoco. “1.7” di Tordini promette fughe che non arrivano ma rivela la sua luce proprio nel restare sospesa. È il contrabbassista ad emergere nell’economia del trio, che gioca volutamente per tutte e nove le tracce in sottrazione, su dinamiche che tendono verso la sparizione. “Daily Task” suona ayleriana ma resta sempre su toni a mezza voce, croce e delizia di un disco che tenta la strada che costeggia il precipizio del pianissimo ma non osa deviazioni dai sentieri battuti, finendo per suonare forse troppo educato. Restiamo in attesa del prossimo lavoro, confidando in un brusco deragliamento o in un inabissamento nei mari del silenzio.

TIM BERNE’S SNAKEOIL, The Deceptive 4 

Ennesimo disco di Berne, stavolta dal vivo, con quella macchina da guerra che risponde al nome di Snakeoil. Oscar Noriega al clarinetto, Matt Mitchell al pianoforte, Ches Smith a batteria e percussioni, il leader come sempre al sax alto. Solito quartetto stellare e solita musica austera, ripida e feroce: capace, nel suo farsi furente e controllatissima, di portarti totalmente dentro di sé, di zittire qualsiasi altro pensiero, distrazione o affanno, per lasciare spazio a un silenzio della mente che sa di zen, come quando assistiamo all’indecifrabile prendere forma di una nuvola o spiamo da vicino un animale selvatico che non sa di essere visto. Super-intellettuale ma non algida, rapace e matematica ma non pesante, bianca, di un biancore abbacinante (non così lontana da certo avant-rock, laddove nel jazz i punti di riferimento potrebbero essere le poliritmie vertiginose di Steve Coleman o le orchestrazioni beffarde di Henry Threadgill) eppure strabordante groove implicito, la musica di Tim Berne con questo quartetto è una sfinge di rara bellezza. Che si erge in tutta la sua potenza in questo doppio live, che cattura nel primo cd un concerto del 2017 presso gli studi della Firehouse 12 in Connecticut, mentre il secondo testimonia il secondo e terzo live della band in assoluto, ancora prima che il progetto avesse un nome, e rende omaggio, nella quarta fluviale traccia (21 minuti), al mentore di Berne, il grande Julius Hemphill. Ascoltiamo le consuete sfuriate limpide e arcigne al tempo stesso, labirinti escheriani miracolosamente equilibrati in ogni componente: il pianismo obliquo e inesorabilmente imprendibile di Mitchell svolge le funzioni del basso, sciorinando moduli e strutture a spirali che si avvitano poi in rincorse e nevrosi esatte, che quando esplodono (raramente) lasciano senza fiato. Tim Berne erige le sue torri di rabbia, spingendo sempre come un ossesso, pur restando costantemente in controllo pieno e perlustrando ogni spigolo armonico, degnamente spalleggiato dall’ottimo Noriega al clarinetto; a cucire insieme tutto questo, il batterismo meno didascalico che si possa immaginare, quello lunare e sospeso di Ches Smith (uno capace di passare dagli Xiu Xiu a Mary Halvorson senza fare una piega, swingando come un dannato senza swingare mai). È un’epica asciutta, vibrante, quella del quartetto, che quando serra le fila non fa prigionieri, e quando apre le maglie sa spalancare sipari. Che ha l’unica colpa di non destare più la stessa meraviglia solo perché la conosciamo già (e con Berne, ad essere onesti, il sentore o il rischio che si resti ingabbiati dentro un meccanismo calibratissimo e diabolico a volte fa capolino). Ma invidiamo molto chi avesse la fortuna di non averli mai ascoltati e restiamo con la speranza di tornare il prima possibile a vederli dal vivo, dove fanno davvero scintille, come questo doppio dimostra: semplicemente uno dei migliori gruppi jazz, oggi.