Notizie dal diluvio #5

foto di Pietro Bandini (Phocus Agency)

Dammi, oggi, desiderio e amore,
con cui tu vinci tutti, mortali e immortali.
Ai confini della terra feconda io vado
per visitare Oceano, padre di tutti gli dei.

Omero, Iliade, XIV, 198-201

Dove siamo, chi altro c’è qui con noi? Questa terra sta cambiando vestito, viso, le ombre si allungano, la stagione si accorcia, le distanze si fanno sempre più chilometriche, l’inverno del nostro virus e del nostro scontento bussa minaccioso alla porta. E allora, di nuovo, rifugiarsi nella musica, raccogliere altre notizie dall’ennesimo diluvio, abitare mondi, ipotizzare altrove plurali dal divano di casa, sentinelle del vuoto in questo ottobre che promette buio, prima che il pomeriggio non arrivi a malapena a quattro righe del suo capitolo. Scrivere come se fosse opera di traduzione, ascoltare come fosse rivoluzione e preghiera, stare soli come pianeti in un cielo che sfugge ad ogni cosmologia e tra poco comincerà finalmente a crollare.

GIANNI MIMMO – LUCA COLLIVASONE, Rumpus Room (Amirani Records, 2020)


Fantasmi della stessa famiglia a cui appartenevano quelli splendidi evocati da Evan Parker nel mio disco preferito del 2019: apparizioni, sparizioni, ombre, fughe, satelliti, ellissi, eclissi, appostamenti, botole. Un dialogo a due tra il sax soprano nitido e pensoso di Gianni Mimmo, patron della Amirani Records, e l’imprendibile cacophonator (un intonarumori dell’Antropocene?) di Luca Collivasone: una sorta di audiogiornale jazz dove s’incontrano Steve Lacy e i Residents, un blob anarchico, ispido e controllatissimo nel quale fioriscono mila immagini che durano il tempo di un satori, un vulcano di idee che ribollono e poi scoppiano, si rapprendono di nuovo e poi schizzano, un magma denso e lieve che porta e trasporta, tra terra e astrazione. I suoni concreti, da fucina di Efesto, dello strumento autocostruito di Collivasone fungono da perfetto contraltare ai voli del sassofono, creando un luogo inaccessibile e familiare, indicibile e monumentale, intimo e cosmico, amniotico e oceanico. Carillon dell’apocalisse, maree dentro una stanza. Questo cd (anche vinile numerato in 100 copie) è un vero e proprio vaso di Pandora, non perdete l’occasione di scoperchiarlo, mortali e immortali.

GIANNI MIMMO – ALISON BLUNT, Busy Butterflies (Amirani Records, 2020)

Meno ispido e da cardiopalma ma altrettanto affascinante ed ispirato quest’altro duo, dove il sassofonista Mimmo è con la violinista, performer e renaissance woman inglese Alison Blunt, uscito a inizio anno ma assolutamente meritevole di recupero. A volte nella musica ci sono dischi straordinari che, per cause di vario tipo, mai vedono la luce: questo ottimo Busy Butterflies mi ha riportato a galla memorie di un lavoro, si parla di oltre dieci anni fa, che avrebbe visto assieme gli Anatrofobia e il violinista Stefano Pastor. Un disco che abbiamo ascoltato forse solo io ed i musicisti coinvolti. Questa collezione di insetti preziosi sicuramente avrà maggior diffusione, anche se la circolazione carbonara purtroppo per queste sonorità è nell’ordine delle cose. Peggio per chi se lo perde, che le farfalle che abitano questi tre quarti d’ora di spaziotempo sono occupate a impollinare una miriade di fiori, comprese le nostre orecchie che tra schiudersi , stridori, languori asciuttissimi, filosofie naturali e mondi rarefatti, odono musiche che le mani e la bocca non sanno dire, di cui non si sa come restituire la nuda meraviglia. Spigoli, spigoli e ancora spigoli, carezzevoli, appuntiti, abissali, geometrici, surreali, fotografici ed immaginifici. Secoli sulle spalle, segreti nell’iride, nelle dita e nel respiro, minuti distillati di purissima poesia.
Con T.S. Eliot, opportunamente citato in copertina, “E noi non smetteremo di esplorare”.

OLTRANZA OLTRAGGIO (Mirco Ballabene, Stefano Battaglia, Massimiliano Furia), La Beltà

Che sarà della neve
che sarà di noi?
Una curva sul ghiaccio
e poi e poi… […]

Così Andrea Zanzotto, al cui libro “La beltà” è intitolato questo altro bel lavoro da recuperare; contrabbasso (Ballabene), pianoforte (Battaglia) e Furia (batteria), circospetti, novecenteschi, nell’ora della galaverna intonano un canto alla durata e all’effimero, al mondo che esiste, continua, sparisce, riappare. Echi dell’indimenticato Christian Wallumrød di A Year Of Easter su ECM, un requiem delicatissimo e sobrio, gesti misurati e densi, come se da questi dipendesse il destino dell’amore, degli uomini, prima della fine che avanza, avanza, avanza. Un blues sui generis (di blues non c’è manco l’ombra nel disco, ma il disco è pieno di ombre) diafano, artico, cameristico, come quando gli dei avevano ancora memoria.
E noi? “Siamo un segno senza significato” (Hölderlin).

ELSA MARTIN – STEFANO BATTAGLIA, Al Centro Delle Cose (Artesuono, 2020)

Ancora Stefano Battaglia, ancora poesia. Sfueâi, l’anno scorso, restò a lungo nel lettore. Quegli “stormi di luci disseminati nell’oscurità del cielo da non si sa quale mano” (da una poesia di Novella Cantarutti) erano versioni in musica di vari poeti friulani. Per questo secondo capitolo si passa alla monografia sui testi di Pierluigi Cappello, morto cinquantenne tre anni fa. Dieci miniature che ripetono la formula del primo disco in duo, perfette per cullarsi in serate davanti all’oblò chiuso della finestra che si affaccia sul nero. La voce di Elsa Martin resta addosso, ci sono frangenti dove inaspettatamente affiorano memorie della divina Iva Bittová (“Le Lucciole”) e di un Est ancestrale e metaforico (“La Retroguardia”: “Sì è la coda dell’esercito in fuga/ o la fronte dell’altro che incalza/ qui resistere significa esistere/ la speranza è il colore dei morti/ nelle tuniche stracciate dal vento”), intimo e reale: il luogo dove le cose vanno a tramontare, il posto della fine. Qualche asperità in più avrebbe forse giovato a un disco delicatissimo e nitido nel suo incanto, benedetto da un’ispirazione che non è (solo) di questa terra, ma tradurre in suono le sue poesie chiedeva solo dolcezza, con un languore “scomparso, come una nuvola.”

“Mondo, mano che vieni a me aperta
e non sei l’aperto della mia
in questo non vedersi cresce
il mio male senza ombra”

MASSIMO GIUNTOLI, Tender Buttons (Molkaya Records – ADN Records, 2020)

Chiudiamo questo diluvio in gran parte dedicato alla poesia con uno dei nuovi progetti del vulcanico Massimo Giuntoli, voce, pianoforte e tastiera su liriche di Gertrude Stein. Diciannove miniature di arguto, denso, lieve e garbato (ma non troppo, fortunatamente) songwriting, canterburiane fino al midollo ma senza polvere addosso, tra sincopi, variazioni, evoluzioni sempre intelligenti e ben costruite. Wyatt sullo sfondo approva sornione (ma il tono e l’intenzione della voce somigliano più a quella di John Greaves) con una birra in mano, un libro sgualcito sul tavolo a pancia in giù su cui ora passa un gatto troppo grosso, un didascalico pomeriggio inglese di pioggia a disegnare mondo oltre la finestra.