Notizie dal diluvio #4

immagine di Pietro Bandini – Phocus Agency

“Sono abbastanza lunghi ancora i pomeriggi.
Con sguardi amichevoli mi guardano passando.
Senza parlare mi dicono
che il senso della scena vuole molta attenzione” […]

Franco Fortini (Tutte le poesie, Oscar Mondadori, 2014)

VOCIONE, Left Hand Theory – Live At Il Torrione (Aut Records, 2020)

Una medusa i cui tentacoli sembrano una mano, la campana un viso con un’ombra di spavento disegnata addosso, a vagare in un mare scuro, nelle profondità dove la luce giunge ad intervalli misurabili forse in secoli. Così si presenta dalla copertina il nuovo, terzo disco di Vocione (ottima la scelta del nome), pubblicato da Aut Records, registrato dal vivo al Torrione, il Jazz Club di Ferrara. La formazione base, un duo composto da Marta Raviglia alla voce e da Tony Cattano al trombone, in diversi episodi si espande con l’intervento di vari ospiti tra cui segnaliamo la voce ed i live electronics di Manuel Attanasio (che ha all’attivo un altro duo con Ravaglia), la chitarra di Giacomo Ancilotto (già con Caterina Palazzi Sudoku Killer e negli ottimi Luz) ed il pianoforte di Fabrizio Puglisi. In questo bel lavoro ascoltiamo una sorta di personale e densa visione da jazz club trasferito per un qualche scherzo cosmico all’interno di un batiscafo: un’immersione nelle profondità del suono, circondati da un buio nel quale muoversi con circospezione. Riverberi, stanze, piani sequenza, canti tutti mentali di palombari alle prese con un bop per forza di cosa iper rallentato: il vaghissimo senso di veglia e di minaccia di “Confessions On Demand” ad aggiungere punti di domanda più che ad offrire risposte, perfetta colonna sonora per un thriller metafisico. O l’incedere surreale e circense della title-track, quasi una risposta di una strega sirena al tricheco Disney di Alice in Wonderland. Ed è proprio un paese abitato da creature strane e sorprendenti quello disegnato da queste dodici immaginifiche tracce dove i timbri si confondono felicemente, il trombone muta forma (“Eco Time II”), la voce si mimetizza e si fa altro da sé, finché all’improvviso non ci ritroviamo, ubriachi e fradici, pronti per imbarcarci per un’altra navigazione, diretti non sappiamo dove (“Embarcadero Ginger Serenade”), con le ombre di Tom Waits e di dive jazz avvolte in un didascalico fumo ad annuire sensuali dietro l’angolo. Preziosi gli interventi del sempre bravissimo Fabrizio Puglisi, che col pianoforte scova polvere di poesia negli spigoli (“Eco Time III”). Quattro visioni dello stesso tema (il pezzo intitolato “Eco Time”) appunto, tutte molto differenti tra di loro (“l’ultima è quasi una sorta di haiku minimal techno acustico) e tutte convincenti, sono la prova dell’ispirazione che anima un lavoro sorprendente e pienamente a fuoco, felicemente sospeso tra incubo e meraviglia.

CARL STONE, Baroo (Unseen Worlds, 2019)

Baroo

Meraviglia, stupore, incredulità mi hanno colto per la prima volta quando ho sentito cosa fosse capace di combinare in questo disco per Unseen Worlds (già responsabile del bellissimo Extreemizms di Philip Corner) Carl Stone. “Ho sempre cercato un modo personale di articolare in qualche maniera uno spazio che stesse a metà strada tra quanto è riconoscibile e prevedibile e quanto non lo è, una sensazione, questa, che probabilmente mi è rimasta dentro a seguito di vecchie esperienze con le sostanze psichedeliche. Questo è stato il motore celeste della mia ricerca sin dagli esperimenti su cassetta degli anni ’70”. Quella partorita dalla mente scoperchiata e illuminata del compositore americano sessantasettenne è una musica letteralmente inaudita: realizzata con Octatrack, laptop e utilizzando la programmazione MAX, alle orecchie di chi scrive suona come nient’altro. Una sorta di folk ancestrale liberissimo e futuribile, un caleidoscopio di ansie e satori che altro non sono che un puro e totale inno alla libertà del suono, al suo magistero senza confini. Salite a bordo di questo ottovolante: sarà come farsi un viaggio in ayahuasca, curativo e fluviale, o come visitare posti solo passando le dita sulla mappa di un Altrove (iper)reale e (im)possibile. Vertigini, loop scintillanti, Musica Elettronica Viva, frenesie di calipso alieni (la title-track), field recordings dal Sud Est asiatico, pop stortissimo e del tutto plausibile, viaggiare da fermi, mondi per davvero mai sentiti, mai visti. Mi ha fatto tornare in mente – per la capacità sconfinata di entrare nelle pieghe del suono e di fletterlo a qualsiasi esigenza, per la capacità di raccontare storie – l’unico lavoro a proprio nome del compianto Hal Willner, Whoops, I’m An Indian. Carl Stone è un genio, senza mezzi termini: pochi mesi dopo questo capolavoro (che ha un anno sulle spalle ma suonerà attuale e fuori dal tempo anche tra cinquanta, capace com’è di coniugare in modo davvero maestoso avanguardia ed accessibilità, come una festa pagana per cuore, orecchio, intelletto), non contento, ha fatto un altro centro pieno con Himalaya, sempre su Unseen Worlds. Fatevi un favore, se li avete persi, recuperateli entrambi, ne vale decisamente la pena.

FRANCESCO CIGANA, An Aesthetic (Setola Di Maiale, 2019)

Un rumore di terra, geologie impensabili e familiari, cascate di massi, la filosofia del tempo custodita dai sassi, le rime che si annidano nel suono, lampi, bagliori, sussulti, un tuono.

Richiede orecchie coraggiose e cuore aperto questo ottimo lavoro di Francesco Cigana, un solo per percussioni all’insegna dell’improvvisazione e della ricerca timbrica. Su queste pagine si è parlato a più riprese di batteristi espansi. Ecco, da quelle parti siamo, con un che di apocalittico ed epico, di scabroso e selvatico, come fossimo in un canto (un angolo) di una commedia davvero poco divina: risonanze, fischi, speleologia dell’inconscio, oceani di volumi gestiti con grande padronanza della dinamica e una fluida capacità narrativa. Un lavoro, uscito l’anno scorso per la sempre attenta Setola Di Maiale, che merita assolutamente di essere recuperato; suona in certi frangenti elettronico senza esserlo (è tutto acustico e suonato in presa diretta), in altri suona come non aveva nemmeno il musicista probabilmente immaginato e come nemmeno noi che ascoltiamo potevamo pensare; sonda appunto l’impensato, il nascosto, l’abisso dove tutto si fa di un nero che è sempre più nero di quanto ci aspettiamo, ed è lì, tra le crepe di questi terremoti che si nasconde il diavolo, che come sappiamo ha cura dei dettagli: An Aesthetic è un manifesto etico oltre che estetico, un disco certamente non per tutti, e nemmeno per molti, ma che saprà regalare visioni a pochi coraggiosi, davanti ai cui occhi improvvisamente brilleranno mondi.

JEFF PARKER, Suite For Max Brown (Intarnational Anthem, 2020)

“Facevo spesso il deejay quando vivevo a Chicago. Era nell’epoca precedente all’avvento di programmi come Serrato e all’esplosione dei selecters muniti di pc. Io ero classico: due giradischi, due vinili ed un mixer. Una notte per una decina buona di minuti riuscii a far andare perfettamente insieme un disco di Nobukazu Takemura con il primo movimento di A Love Supreme di John Coltrane: avevo nelle orecchie questa cosa free, abstract jazz che andava sostenuto da un beat basato su una sequenza. Suonava così bene!”. In queste memorie c’è molto, o forse tutto, dello spirito che anima questo nuovo disco del chitarrista di Tortoise, Jeff Parker, pubblicato da International Anthem, già salita alla ribalta in tempi recenti per i dischi di Jamie Branch e di Irreversibile Entanglements, tra gli altri, ed addirittura la Nonesuch Records, sulla quale Parker aveva già fatto capolino nel 2005 come sideman di Joshua Redman per l’album Momentum. Dodici tracce suonate con la consueta classe, in un bell’equilibrio tra samples e suono in presa diretta, con un mood hip hop costante e un andamento jazz grondante storia, swing, soul. Al netto della bravura di tutti i musicisti coinvolti e della piacevolezza dell’ascolto, chi scrive dal suo angolo di ascolto osserva che forse in qualche momento avrebbe giovato al tutto un maggior lavoro sugli spigoli, un procedere un poco più selvatico, anche se non è questa alla fine la cifra di Parker, sempre molto elegante, cool, consapevole, ordinato, limpido. Il disco si alterna tra brani più compiuti e brevi bozze basate su campionamenti che lasciano intravedere possibilità interessanti senza portarle a compimento. Molto belle le spirali di “Fusion Swirl”, un loop che non lascia scampo, celeste ed avvolgente, lievissimo ed inesorabile, con un’apertura estatico-amazzonica che fa pensare ai São Paulo Underground (e Mazurek interviene nel disco, del resto) e la grammatica nitida e languida della title-track finale. Se tutto il disco è dedicato alla madre, Maxine Brown, la prima traccia vede la partecipazione alla voce della figlia, Ruby Parker (un’avvincente ipotesi soul-hip-jazz: il cerchio si chiude, si guarda indietro per pensare avanti, i piedi saldi nella tradizione, nel grande alveo della musica nera, per tentare nuove strade). Se solo osasse un pochino di più e abbandonasse le buone maniere, potremmo aspettarci il capolavoro. A questo giro è arrivato comunque un buon(issimo) album, non stupisce sia piaciuto molto nei circuiti hipster, che lo avranno trovato un ascolto accogliente e gratificante.

AA.VV., Ten Years Gone (Tompkins Square, 2019)

Chiudiamo queste notizie dal diluvio con la segnalazione di una bella compilation. A dieci anni dalla morte del chitarrista americano Jack Rose, Tompkins Square lo ricorda e lo celebra con una compilation – curata da Buck Curran del duo psych folk Arborea – di strumentali suonati da suoi amici e da giovani musicisti che hanno tratto ispirazione dalla sua musica. L’America maiuscola, didascalica, immaginifica e sconfinata delle praterie, degli alberi giganti, dei sogni e degli incubi, del folk europeo sciacquato nell’oceano della distanza, mescolato all’estasi della ripetizione, alle vertigini acustiche del fingerpicking. Quattordici tracce: in un lavoro che mantiene una qualità più che buona lungo tutti i suoi quattordici episodi, a me sono piaciute in modo particolare “A King’s Head” di Nick Schillace, angeli a martellare le porte di un cielo gigante che mi hanno fatto tornare in mente gli Espers, “By Any Other Name” del grande Sir Richard Bishop (uno che solo per il fatto di aver suonato nei Sun City Girls merita rispetto nei secoli, e comunque dopo ha fatto tanto altro) e la solenne, lancinante, densa di profumi iberici “Alcantara”, per violoncello, di Helena Espvall (avevamo accennato ad Espers, prima, eccone un membro). Restando in Spagna una bella scoperta Isasa, con la sua Saeta De La Calle Mozart, enigmatica e sospesa in un altrove torrido da estate metafisica ed infinita. Un disco da ascoltare a finestre aperte e con il cuore spalancato. Come cantava uno che la sapeva lunga, tanti anni fa (così lunga da scordarsi il proprio nome), Music is Love.