Notizie dal diluvio #1

Troppe, troppe, troppe le uscite di cui dare conto. Il mercato non esiste più, la critica non esiste più, ma la musica buona, ottima, esiste e, banalmente, inesorabilmente, resiste. Questa rubrica, a cadenza lunatica ed eventuale, nasce allo scopo di dare appunto notizia di alcuni lavori in mezzo al diluvio, non solo discografico (e comunque sempre senza un ambito specifico di riferimento) che non meritano di passare sotto silenzio nel marasma vorticoso che tutto mastica e sputa in questi giorni allagati, frenetici e (dis)illusi. La musica qui resta una medicina, o un veleno sacro. Comunque una delle poche esperienze rituali rimaste. In attesa dei titoli di coda, o facendo finta che non stiano già scorrendo davanti a noi.

Immagine di Pietro Bandini di Phocus Agency, che ringrazio.

ELSA MARTIN / STEFANO BATTAGLIA, Sfueâi (ArteSuono, 2019)

Sfueâi è una parola friulana e sono “stormi di luci disseminati nell’oscurità del cielo da non si sa quale mano”, come recita una poesia di Novella Cantarutti. Questo disco meriterebbe una pagina intera di un libro scritto con un inchiostro brillante su carta spessa e preziosa, perché di musica preziosa si tratta. Undici magnifiche miniature tutte cantate in friulano dalla splendida voce di Elsa Martin, magistralmente accompagnata al pianoforte da Stefano Battaglia, su testi di poeti friuliani, tra i quali – oltre a Novella Cantarutti – Pier Paolo Pasolini e Pierluigi Cappello. Proprio al nitore di “Azzurro Elementare”, uno dei libri del poeta recentemente scomparso, fa pensare questa raccolta di canzoni felicemente, miracolosamente in bilico tra inverno e calore, come dei carillon obliqui e delicatissimi che riportano a galla benvenute memorie di quel capolavoro che fu A Year Of Easter del Christian Wallumrød  Ensemble, uscito su Ecm nel 2003. Un lavoro capace di mettere d’accordo gli amanti della avanguardia e chi ama stare comodo dentro la musica: la poesia è ovunque, nella pronuncia del pianoforte di Battaglia e nei colori della voce di Martin, in ogni gesto di un lavoro ispiratissimo e necessario. Fatevi questo dono, attraverserete l’inverno con un tepore nuovo, inatteso.

FILIPPO VIGNATO / HANK ROBERTS, Ghost Dance (Camjazz, 2019)

Un altro duo, questa volta decisamente più inusuale del classico piano e voce: in questo live alla Cantina “Le Vigne di Zamò” (nuovamente però Stefano Amerio, come già in Sfueâi, a registrare e mixare, a garanzia di un suono di purezza cristallina) si incontrano infatti il violoncello di Hank Roberts e il trombone di Filippo Vignato, già insieme nel dream team Pipe Dream. Un lavoro che vive di un equilibrio sottile, che si manifesta già nella paternità delle musiche: dei nove pezzi tre sono firmati in coppia, quattro sono scritti da Roberts e due da Vignato. I timbri profondi e spettrali del trombone allungano le ombre delineate dal violoncello, in un gioco di specchi intriso di calibratissima malinconia corale, raccolta e delicatamente ispida, tra soluzioni minimaliste, quiete zen, canzoni al crepuscolo. Quando le cose si fanno più astratte (l’incipit di “Necklace”, il frammento “First Hit”) ci ritroviamo persi in una bruma che non sappiamo dire in parole, ed è un bene.

TELL NO LIES, Live At Torrione Jazz Club (autoproduzioni, 2019)

Tanto i dischi di cui abbiamo dato notizia sopra giocano su toni sfumati e su una pronuncia leggera, quasi sussurrata, tanto questo lavoro è semplicemente, inesorabilmente travolgente, fin dall’inizio. Non vi dico bugie, e non ce le dicono nemmeno loro. I Tell No Lies sono un quintetto letteralmente esplosivo. Le composizioni del pianista Nicola Guazzaloca sarebbero state perfettamente a loro agio nel catalogo BYG/Actuel, la band è una gioiosa macchina da guerra, un meccanismo libero e calibrato al millimetro tra struttura e improvvisazione, tra euforia grondante negritudine, groove e furore. Idee tematiche nitide e coinvolgenti danno il la a pezzi benedetti da una scrittura libera, matura, personale anche se evidentemente erede di una lunga storia, tra fire music e la libertà politica oltre che musicale del free. Musica come atto di resistenza alla medietà e alla comodità che ci viene spacciata come jazz da tanti, troppi lati; la formula con doppio tenore (Marraffa ed Orefice) funziona a meraviglia, Luca Bernard ed Andrea Grillini (visto la scorsa estate tenere testa alla follia di Per Favore Free, a nome Giorgio Pacorig e Vincenzo Vasi) a contrabbasso e batteria tengono il beat, svisano, aprono le vene di un tempo che passa in un battito di ciglia. Perché la musica di Tell No Lies riesce nel miracolo di essere divertente, di trascinare, fa venire voglia di aprire la finestra e scendere per strada, come nel mitico pezzo salsa “Afuera Pa La Calle” del Gran Combo, istituzione della salsa di Porto Rico. Di salsa qui nessuna traccia, ma l’irresistibile frenesia ritmica che anima il quintetto è la stessa. Impossibile citare un pezzo rispetto agli altri, in ognuno di essi troviamo temi che si stampano subito in testa e la capacità nient’affatto scontata di muoversi liberi e potenti tra danza e delirio. Per quel che vale, il mio preferito forse è “Anamnesi”, con un giro di basso che apre mondi, un pugno di note che, per davvero, dovrebbero essere patrimonio dell’umanità devota al jazz più libero e vero. Per procurarvi questo gioiello visitate questo sito e, se capitano dalle vostre parti, cercate di non perderveli per niente al mondo. Nel 2020 dovrebbe uscire il loro secondo disco, la febbre è già alta. Ne riparleremo presto, con un’intervista a Guazzaloca.

SETOLA DI MAIALE UNIT & EVAN PARKER, Live At Angelica 2018 (Setola Di Maiale, 2019)

Di Setola di Maiale abbiamo parlato a più riprese, chi segue le musiche non allineate conosce quest’etichetta che nel 2018 ha compiuto i suoi primi venticinque anni. Per festeggiare l’importante evento il Festival Angelica ha ospitato, a maggio di due anni fa, un concerto di un ottetto battezzato per l’occasione Setola di Maiale Unit: dentro Marco Colonna (clarinetti), Martin Mayes (corno), Patrizia Oliva (voce ed elettronica), Alberto Novello (elettronica analogica), Giorgio Pacorig (pianoforte, magistrale), Michele Anelli (contrabbasso), Stefano Giust (batteria), Philip Corner (magnifico il suo disco per Unseen Worlds, ne abbiamo parlato qui) e Phoebe Neville (nella introduzione ai gong) e la special guest Evan Parker (sax soprano e tenore), autore di uno dei dischi più abbacinanti dell’anno passato. Big bang, sciami sismici, apparizioni, sparizioni, rivelazioni, esondazioni, verità nitidissime, bugie perfette, lampi, haiku, satori, lo stesso sentore di urgenza e minaccia cosmica che anima ad esempio certi tesori del catalogo Actuel, come i dischi di Alan Silva & The Celestial Communication Orchestra: l’arte dell’improvvisazione colta nel momento di un’altissima ispirazione, per una musica che è impossibile dire con le parole ma che va ascoltata ed acquistata, supportando chi dal 1993 si danna l’anima per ricordarci che un altro jazz è possibile. Un pezzo di plastica che contiene universi, racchiusi in 71 minuti di musica imprendibile. Una matrioska psicoattiva aprendo la quale potrete scoprire che un pomeriggio può durare un secolo, e viceversa.

ZLATKO KAUČIČ QUINTET, Morning Patches (Fundacja Słuchaj, 2019)

Zlatko Kaučič è un batterista sciamanico e fluviale, capace di raccontare storie attraverso il suono. Il suo corposo box, Diversity, pubblicato di recente dalla polacca Not Two Records, mi aveva catturato per la pluralità di lingue che dimostrava di saper parlare. Lo stesso avviene in questo live registrato durante il Brda Contemporary Music Festival in Slovenia, nella chiesa di San Martino, nel Collio sloveno, a pochi chilometri dal confine. Se il leader si occupa di estrarre suoni come pepite dalle viscere del pianeta, non da meno sono Michael Moore (sax alto e clarinetto), Marco Colonna (clarinetto e clarinetto basso), Albert Cirera (sax tenore) e Silvia Bolognesi (contrabbasso), perfetti nell’intonare una sorta di rituale ancestrale e terrigno ad invocare una qualche divinità pre-alfabetica. Un mood sorvegliato e selvatico al tempo stesso informa queste improvvisazioni ispide e delicate, preziose e monumentali come fossili ed effimere come scie nell’aria. Segnali umani, troppo umani, per comunicare il mistero del suono nel suo aprirsi e fiorire ancora, nel XXI secolo.