NOBLE ROT, Heavenly Bodies, Repetition, Control

Toronto, Holy Fuck, Metz. Entro questi termini si muovono Alex Edkins e Graham Walsh, cioè i Noble Rot. Muffa nobile, quindi, che sostanza ed elegantezza riesce a donare a vini come il Sauternes o i Muffati Orvietani, anche se qui in realtà ci limitiamo ad una carrellata di mezz’ora di suono che pervade le nostre stanze: si tratta di post-punk secco e minimale che costringe a muoverci, qualsiasi cosa stiamo facendo. Ritmi dinamici, urla come palline che rimbalzano, ma anche momenti espansi e pennellate paesaggistiche. Uno scibile enorme, ma che in realtà si dipana in maniera assolutamente credibile, concedendo un momento di riflessione a mezza via, quasi una pausa per capire se il lavoro di un mese, tanto il tempo impiegato per concezione e realizzazione del disco, fosse sensato ed occorresse continuare su questa via. Certo che lo era, visto che in leggerezza si sfiorano mondi differenti fra loro. Ferma restando l’attenzione per ritmo ed atmosfera, i Noble Rot giocano con quanto accaduto negli ultimi quattro decenni, ancora una volta a significare come il post-punk, se utilizzato come idea e non come santino, sia materia dinamica e pungente anche nel 2023. C’è una strana luce in questo disco, come se trasferendosi in un deserto i Noble Rot abbiano assorbito energia solare, tramutandola in logaritmi e geometrie.

Non sorprende quindi rilevare come la copertina, assenza desertica e dalla quale traspare la vita, sia opera di quel Dave Konopka che con i Battles tra ritmi e fughe giocò fino alla saturazione. Suoni disidratati, appena accennati, ma che colpiscono come aghi, a farci scattare nervosamente, come nell’ipnotica “The Desert”. L’impressione è quella di musicisti di grande tecnica e di grande affiatamento che, decisa una linea, sbancano grazie alla formula del less is more. Potenzialmente in grado di farci dipendere dalle loro prossime idee, mentre ci manterremo in forma con queste.