NICOLA DI CROCE

NICOLA DI CROCE

Giovane musicista e soundscaper, studioso e gran camminatore, con lo sguardo sempre assorto in chissà quali articolati pensieri… Nicola Di Croce fa parte di una recente generazione di artisti che stanno provando a dare una rinnovata e necessaria importanza al suono e al paesaggio, da queste parti ce ne siamo occupati in più occasioni. Importante quindi approfondire il discorso col diretto interessato. Buona lettura.

Da poco è uscito il tuo nuovo album, Istruttiva Serie, e hai incominciato a presentarlo in giro (sarai in concerto a Milano con Rafael Anton Irisarri, autore del notevole A Fragile Geography). Quali sono le prime reazioni di critica e pubblico? Ti ritieni soddisfatto di quanto svolto per quest’ultima uscita?

Nicola Di Croce: Sono davvero felice di presentare il mio nuovo live in occasione dell’arrivo in Italia di Rafael Anton Irisarri, è un artista che apprezzo moltissimo. Credo poi che l’idea di Plunge di mettere in relazione la sua “fragile geografia” col mio ultimo lavoro sia assolutamente coerente al tema della “persistenza sonora”. Devo dire che Istruttiva Serie è un lavoro molto distante dalle mie cose precedenti, ha rappresentato senz’altro un punto di arrivo e un nuovo punto di partenza per il mio linguaggio musicale. Ho scelto di presentarlo dal vivo col trombettista Gabriele Mitelli, improvvisatore dalle idee e dal suono incredibile, con cui ho condiviso negli ultimi anni tante esperienze. Il tour che abbiamo fatto a dicembre mi ha confermato che il suono e le dinamiche che volevo creare erano perfette per rappresentare una “fragilità” che sentivo assolutamente necessaria. Credo che il live, in maniera ovviamente diversa dal disco, riesca a comunicare questa idea di “non finito” attraverso un uso poco canonico della registrazione ambientale combinata a frammenti melodici, e attraverso un approccio “improvvisativo” che cerca costantemente un dialogo tra questi due mondi. Devo dire che i concerti fatti finora sono stati molto apprezzati dal pubblico, vediamo cosa dice la critica.

Sei arrivato al primo lavoro ufficiale a tuo nome, prima avevi pubblicato come Walkingsoundtracks: in digitale, Tightrope, e successivamente Fieldnotes, che si presentava sempre in digitale e con una speciale stampa Risograph. Ora approdi al vinile grazie alla Kohlhaas. Come mai la scelta di questo formato?

Parlo spesso con l’amico Enrico Coniglio della crisi dei formati contemporanei, o di quale sia il formato più adatto per presentare un lavoro, dei pregi e dei difetti del digitale, della rinascita dei mezzi analogici o alla nuova primavera dei nastri… Il formato di Fieldnotes, in particolare, è stato concepito proprio per proporre un’alternativa a questo sistema di fruizione musicale, integrando al digitale una stampa in edizione limitata con lo scopo di mantenere il legame con un “oggetto”. La stampa nasce per accompagnare il contenuto musicale, ma perde il carattere di supporto; penso che oggi questa sia una delle possibili strade che si possono percorrere per conservare un valore oggettuale nella produzione musicale. L’idea della stampa, poi, è per certi versi anche una provocazione del modo con il quale ci adattiamo senza neanche troppo pensarci ai supporti che abbiamo a disposizione. Se pensiamo che le opere di musica classica non erano certo concepite per entrare in un disco, e andiamo avanti fino alla nascita dei supporti di riproduzione, ci accorgiamo di quanto ogni supporto abbia influenzato il suo contenuto musicale; dai brevi brani pensati per una facciata di 45 giri, al minutaggio di un album calibrato sulla capienza di un cd. L’avvento del digitale, tralasciando la sovraesposizione di contenuti che ha consentito, ha forse per la prima volta messo in discussione questo sistema di “adattamento” al formato; non credo che Terry Riley sia stato felice di pubblicare “In C” su vinile, sicuramente avrebbe preferito un cd…
Il rischio quindi è che il formato devii il pensiero compositivo e lo adatti alle sue possibilità: è per questo che preferisco evitare di concepire già in partenza il formato a cui è destinato un lavoro, e di decidere quello più adatto solo in una fase successiva. Così è andata per Istruttiva Serie, che per durata, articolazione e resa sonora finale, si prestava perfettamente alla pubblicazione su vinile.
A differenza di altri mezzi, poi, credo che il vinile abbia oggi dei grandi meriti. Richiede intanto del tempo da dedicare all’ascolto, inizia ad un rituale e obbliga ad un’attenzione che va oltre il mezzo stesso. Sono convinto che la qualità non stia nell’alzarsi a cambiare lato, ma che rappresenti uno sforzo di “produzione” a monte che dà valore all’oggetto e al suo contenuto. Produrre un vinile è per un’etichetta una piccola impresa economica che presuppone una partecipazione e un coinvolgimento col progetto che va ben oltre una produzione in digitale. Come dicevamo, sicuramente non tutti i lavori sono adatti a questo formato, ma in certi casi il vinile rappresenta un perfetto veicolo sonoro.

In Istruttiva Serie sembra che dai un “ordine” ed una “forma” diversa ai suoni, li trovo più istintivi rispetto alle cose precedenti, sei d’accordo? Come ti sei relazionato con Giuseppe Ielasi in fase di mastering?

Sono d’accordo, l’ordine e la forma sono cambiati, per alcuni versi seguendo un’istintività a cui non ero abituato, per altri inquadrando l’intero lavoro in una omogeneità timbrica a cui ha sicuramente contribuito il mastering. Con Giuseppe Ielasi è stato molto facile trovare un’intesa, l’obiettivo non era semplice perché entravano in gioco molti field recording più o meno processati, e diversi frammenti di chitarra acustica. Mi interessava molto sperimentare il legame tra timbri e tessiture particolarmente distanti tra loro, e viceversa combinare campioni di cui era difficilmente rintracciabile la provenienza strumentale o ambientale. Gabriele Mitelli ha contribuito tanto a questo aspetto, registrando campioni di tromba che si legano (e si confondono) perfettamente ai drone che via via si sviluppano nel disco.

Ci fai un breve riassunto delle tuo percorso di musicista? Da dove vieni, che studi hai compiuto, e quali sono gli obiettivi che ti sei posto.

Ho iniziato come chitarrista, attraversando con una serie di band il rock, il prog e la psichedelia, fino ad approdare al jazz e alla musica sperimentale e di matrice improvvisativa. Gli anni trascorsi suonando in gruppo sono stati decisivi per il mio approccio allo strumento e alle sue possibilità espressive. Col tempo, e con il crescente interesse per l’elettronica, ho sentito però l’esigenza di sperimentare con una libertà diversa, iniziando a scegliere i miei collaboratori tra gli amici e i musicisti che stimavo maggiormente. Tightrope e Fieldnotes sono nati così, raccogliendo contributi strumentali durante i miei viaggi.

A questo percorso si è contemporaneamente unito l’interesse per l’ambiente sonoro, forse come esito dei miei studi universitari in architettura e pianificazione, attraverso i quali mi ero avvicinato al tema del paesaggio e del territorio. I dischi che ho registrato come Walkingsoundtracks rappresentano infatti la prima convergenza tra il mio percorso musicale e quello di ricerca sul campo. Da questa convergenza molti dei miei obiettivi si sono chiariti spontaneamente seguendo una traiettoria a cavallo tra ricerca accademica e Sound art. Ho terminato proprio in questo periodo un dottorato di ricerca in pianificazione territoriale, che mi ha dato la possibilità di mettere in ordine molte delle esperienze che ho portato avanti in questi ultimi anni, e mi ha consentito di dare una solidità teorica, che ritengo fondamentale, al mio lavoro.

Negli ultimi due anni ho partecipato a diverse residenze artistiche, mettendo alla prova un metodo di “ricerca sonora”, il cui risultato si è visto tanto sul versante musicale quanto su quello della ricerca urbana e territoriale. I miei prossimi obiettivi vanno sempre più in questa direzione di lavoro ibrida, costantemente stimolata da contesti nuovi e da approcci inesplorati alla ricerca attraverso l’ambiente sonoro.

Nicola Di Croce

So che sei stato parte di un po’ di progetti musicali, cinematografici, e appunto legati al paesaggio. Ad esempio nel mediometraggio “Il Firmamento” – basato su una pièce di Antonio Moresco – dei film-maker Jonny Costantino e Fabio Badolato, ti sei occupato del suono. Come li hai conosciuti, e perché sei stato coinvolto proprio tu?

Il mondo delle colonne sonore mi ha sempre ispirato molto, e mi dedico spesso alla realizzazione di musiche per video. Ho conosciuto Fabio Badolato durante un viaggio a piedi da un lato all’altro della Sicilia nel 2011, abbiamo camminato insieme per 150 chilometri, e da quella esperienza è nata un’amicizia e un desiderio reciproco di collaborare insieme. La prima occasione è stata proprio “Il Firmamento”, che ha dato il via a una serie di coincidenze (a cominciare dalla passione di Moresco per il cammino…) che mi hanno portato a conoscere il poeta Domenico Brancale. Con Domenico, grande amico e collaboratore di Fabio e Jonny, il cerchio si è chiuso, ed è iniziata una nuova collaborazione basata sulla destrutturazione della sua voce; ho da poco terminato le musiche per un suo video, e stiamo ora lavorando a una performance che presenteremo in primavera.

Vieni dal Sud ma da tempo vivi ed operi a Venezia, tra le altre cose collabori proprio con Enrico Coniglio, e sei spesso in giro per l’Europa. Ho frequentato per un po’ di tempo quella speciale città, l’ho trovata sempre caotica ma allo stesso tempo affascinante, di notte in particolare, anche grazie ad amici veneziani e non, che me l’hanno fatta vedere con altri “occhi”. Tu come ti trovi? Ti perdi ancora per le calli? E soprattutto, quel luogo in particolare ti dà ispirazione per il tuo lavoro?

A Venezia arrivi per caso e non riesci più ad andare via. Ho avuto la fortuna di conoscere Enrico subito dopo essere arrivato in isola, e insieme abbiamo dato forma alle nostre idee performative e installative con Tavoloparlante, un progetto che ci lega da due anni, ormai. Venezia è un luogo ideale per il mio lavoro, a cominciare dal suo silenzio e dalla presenza dell’acqua, dall’assenza di traffico automobilistico, e dall’estrema facilità negli incontri. Mi piace l’idea di vivere in un paese che conserva dinamiche impossibili per una grande città, ma che allo stesso tempo gode di tutti i vantaggi di un grande centro (dalla cultura ai trasporti…). L’isola poi ti rassicura, ti accoglie ma ti lascia anche la voglia di andare “fuori”, racchiude un’infinita serie di contraddizioni che chiamano costantemente in causa la bellezza e la sua mercificazione. Purtroppo non mi perdo più per le calli, quella è una sensazione che spiazza ma purtroppo dura poco, in compenso cammino spesso e continuo a non abituarmi alla follia di questi spazi.

Hai dei modelli musicali ai quali ti ispiri? Ascolti molti dischi?

Ascoltare rappresenta una pratica di estrema concentrazione, un esercizio che tento di mettere alla prova nel quotidiano indipendentemente dal fatto che si tratti di un disco. A pensarci bene alterno spesso periodi di ascolto prolungato ad altri in cui ho bisogno di mantenere una distanza da tutto, ritrovandomi a passare settimane senza ascoltare nulla o quasi. In fase compositiva o di scrittura tendo a limitare molto gli input esterni, viceversa nei periodi di passaggio tra un lavoro e l’altro mi sento molto ricettivo. Tra gli ascolti che mi hanno ispirato maggiormente mi sento di nominare subito Ornette Coleman, John Zorn, Bill Frisell, e molti di quei dischi ECM dal suono rarefatto e “nordico”. Proprio i lavori di John Surman o di Nils Petter Molvær mi hanno avvicinato all’elettronica, ed hanno stimolato la mia ricerca sia “sullo” strumento che “fuori” dallo strumento. Apprezzo molto chi riesce a creare il proprio mondo sonoro a partire da questa doppia vocazione, penso ad esempio al lavoro di Andrea Belfi, che ne rappresenta per me una sintesi perfetta, o a molti dei lavori di Oren Ambarchi.
Mi piace anche moltissimo il suono di Mount Eerie, o le mille facce di Jim O’Rourke, senza dimenticare, tra tutte, le lezioni di Steve Reich e del già citato Terry Riley, ma sto sicuramente dimenticando tanto altro…

Nicola Di Croce

Come vedi tutta una serie di situazioni musicali, penso a quelle a te più vicine e nelle quali sei coinvolto, come Oak Editions, Archivio Italiano Dei Paesaggi Sonori da noi, o all’estero a realtà come Touch. o Room40, che mettono in risalto musiche legate proprio al paesaggio e al sentimento. Ritieni di far parte di questo sentire comune? Chi, secondo te, ha incominciato in passato a dare maggiore importanza a questo discorso? Io ti elenco qualche nome, non torno troppo indietro nel tempo però, di artisti diversi tra loro: Francisco López, Christian Fennesz e Thomas Köner…

Potremmo anche tornare indietro nel tempo ed arrivare a parlare di John Cage, o del contributo essenziale di persone come Pauline Oliveros o Raymond Murray Schafer. Credo che dal lavoro di compositori di quello spessore si sia avviato un discorso radicalmente nuovo in ambito musicale, ma non solo. L’esigenza era di dedicarsi a una ricerca più ampia, a una consapevolezza del ruolo giocato dall’ambiente sonoro che si sovrappone e spesso si sostituisce ad una ricerca invece più semplicemente musicale (nella letteratura anglosassone si parla del passaggio da “music” education a “sound” e “sonic” education). Questo passaggio ha consentito una riflessione puntuale sul processo celato dietro alla ricerca artistica, i cui esiti sono anche, ma non solo, strettamente “musicali”.

Apprezzo molto quanti procedono in questa direzione: sound artist come Angus Carlyle, BJ Nilsen o Lawrence English, che con estrema coerenza sono in grado di concepire “opere” di grande impatto e di fornire contemporaneamente un interessantissimo impianto teorico attorno ad uno specifico lavoro di ricerca sul campo. Sicuramente mi sento molto vicino a questo approccio: l’interdisciplinarietà credo sia in assoluto necessaria per dare corpo a un progetto (più o meno musicale) che si pone l’obiettivo di indagare lo spazio attraverso il suono.

Hai altre idee alle quali non hai ancora dato forma, ma che vorresti sviluppare per bene?

Ho sicuramente intenzione di continuare questo percorso interdisciplinare: di concentrarmi non soltanto sugli esiti strettamente musicali del mio percorso, ma di essere costantemente supportato dalla pratica dell’ascolto nei campi più diversi. Sto terminando un lavoro interamente composto con field recordings raccolti in Basilicata, e sto iniziando a pensare a un nuovo disco più strumentale e collaborativo, che credo avrà bisogno di molto tempo per essere realizzato.
Nel frattempo con Enrico Coniglio continuiamo a occuparci del nostro Tavoloparlante, e a sperimentare nuove strade per la fruizione e il coinvolgimento del pubblico in una performance “partecipata” di elettro-acustica. Il prossimo appuntamento è il 19 marzo a Brescia per il Moon Event, se passate da quelle parti…