NÀRESH RAN, Praesens
Praesens. Il presente è forse il concetto più sfuggente con il quale ci confrontiamo. Il qui ed ora, talmente sottile che la miglior spiegazione cinematografica è nientepopodimeno che quella di “Spaceballs”, col colloquio fra Lord Casco e il Colonnello Nunziatella. Non sappiamo, ancora, cosa abbia spinto Nàresh Ran ad adottare questo punto di vista, sappiamo solo che il percorso durante il quale ci prende per mano è intrigante più che oscuro. Lungo il tragitto, infatti, ci sono delle presenze, forse potremmo addirittura chiamarle amori… a chi infatti potersi rivolgere con frasi come “… Non importa se siamo vivi o morti, Noi non saremo mai soli…”
Forse non saremo mai soli, ma il tormento è visibilmente interiore e la musica che lo raccoglie e lo racconta segue in maniera quasi circolare il corpo umano, con una pulsazione cardiaca accentuata. Non riesco più a svegliarmi, canta Nàresh Ran e non è difficile immaginare un corpo ed una mente vagare in stato di trance e di dormiveglia, considerato come l’ambientazione si fa notturna e torva. Poi “Paint It Black”, come se Bentivoglio fosse ancora incazzato sopra il palco di “Tourné”, ma il nero ha già sommerso tutto e non leggiamo più i simboli sulle mani di Nàresh, su un baratro col rischio di cadere per sempre. È un disco, Praesens, nel quale perdersi: le parole di Nàresh raccontano una storia, ma la musica trasmette spesso altro, smuovendo le paure più recondite e quindi la messa in esame del nostro vissuto. Un suono catartico, aperto, donato a noi a mani e a cuore aperto, ma impossibile da stringere, ormai ripartito come vento nella notte.