NADJA, Sonnborner

Sonnborner

Doveroso spendere due parole in generale sui Nadja, nel caso ci fosse qualcuno che non li conoscesse ancora: il progetto canadese, ora con base a Berlino, viene fondato nel 2003 dal musicista Aidan Baker, al quale si unisce la compagna Leah Buckareff nel 2005. Il primo si occupa delle chitarre, della drum machine e di strumenti utilizzati meno di frequente come pianoforte e flauto traverso, mentre la seconda è al basso. Entrambi cantano. Non è possibile dare un’idea veloce di cosa suonano, perché la loro musica non è immediata. Eppure è riconoscibile, perché il duo ha il pregio di aver coniato uno stile autonomo. Le macro-categorie musicali dalle quali i Nadja attingono sono sicuramente l’ambient, lo shoegaze, la musica drone, lo slowcore e il doom/sludge metal, ma è comunque sbagliato circoscriverli, specie considerando le collaborazioni messe in piedi durante la loro storia, tra le quali spiccano quelle coi nostri Uochi Toki e OvO, tra le più curiose e particolari.

Sonnborner è uscito in vinile per la Broken Spine dello stesso Baker: cinque brani di lunghezza variabile (dalla mezzora del primo al minuto e mezzo del penultimo) con copertina curata da Mirko Rossi de “Le Nevralgie Costanti”. Il titolo è una parola composta da due che richiamano le inglesi “sun” e “born”, “germanizzandole” (non a caso l’ultimo pezzo si chiama proprio “Sunborn (Coda)”), anche se i termini tedeschi corretti sono “sonne” e “geboren”. Il tutto rimanda all’idea di qualcosa che è “nato dal sole” o un “sole che è nato/nasce”. Da evidenziare anche come la prima traccia “Sunnborner/Aten” rievochi a sua volta questo immaginario, visto che Aten non è altro che l’antico Dio egizio del Sole, chiamato anche Aton ed emanazione di Ra, rappresentato come disco solare. Il minimalismo espanso tipico dei Nadja viene accompagnato anche da un’inizialmente timida sessione di archi, poi sfocia, come in molte altre loro produzioni, in esplosioni di chitarre distorte. La differenza questa volta è che lo fa in maniera meno soverchiante che in passato, come sfondo, dando preponderanza alla linea vocale presente, pur mantenendo un incedere solenne. Quando questo corpo centrale del brano termina si è lasciati in un limbo dove le linee del violoncello e dei due violini presenti acquisiscono sempre più voce. A questo proposito è necessario puntualizzare quanto la musica dei Nadja e dei progetti che ne condividono gli aspetti più marcatamente “d’atmosfera” (su tutti mi vengono in mente i The Angelic Process) sia tanto appagante quanto più la si ascolta, perché si rivela col tempo, in dettagli che si possono venire a creare talvolta involontariamente (grazie ai feedback degli strumenti, per esempio).

Come già accennato, i Nadja imbastiscono spesso collaborazioni con altri musicisti, e nel caso di Sonnborner hanno optato per una sessione di archi. I coinvolti sono il violinista/polistrumentista/compositore britannico Simon Goff (che già aveva collaborato con Baker in particolare nel disco Noplace, a fianco dello Swans Thor Harris), la violinista francese Agathe Max e infine la violoncellista canadese Julia Kent (solista, metà del duo Parallel41, presente nei dischi di Anthony And The Johnsons e in una marea di altri album, anche italiani). I bordoni creati dai tre strumenti con l’ausilio di loop-station formano delle giustapposizioni che potrebbero ricordare i GY!BE, lasciando l’ascoltatore in sospeso, in attesa di un nuovo muro sonoro cadenzato, in pieno stile Nadja. Niente di più sbagliato: la mazzata che investe l’ascoltatore è quanto di più lontano ci si potrebbe aspettare dal duo, specie considerando il resto della sua produzione, con un’unica eccezione: l’ep Tangled. I pezzi di quel disco sono a sé stanti rispetto a tutto ciò che i Nadja hanno realizzato e sono provvisti di un groove che, pur presente in altri loro brani, a causa forse del numero di bpm più alto risulta essere di gran lunga più efficace, creando un ibrido che pesca dallo sludge (e dunque dal punk-hardcore e dallo stoner) mescolandolo con i suoni tipicamente atmosferici che caratterizzano Baker e Buckareff. “In The Shadow Of The Wing Of The Thing Too Big To Be Seen” e “Sunwell” sembrano essere le dirette eredi dell’ep appena menzionato. La prima, all’inizio, pare attingere dal death metal per le sue ritmiche, mentre l’incipit della seconda mi ha riportato alla mente “Evil Eye” dei Fu Manchu. Sempre a proposito di “In The Shadow…”: il titolo sembrerebbe rifarsi ad una frase di un personaggio del libro “Infinite Jest” di David Foster Wallace, dove definisce la depressione come “Time in the shadow of the wing of the thing too big to see, rising”. Non so se effettivamente vi sia una correlazione fra le due espressioni, pur essendo probabile. In generale i testi dei pezzi avrebbero potuto donare delle informazioni in più su cui poter elucubrare, ma dovremo accontentarci.

Conclusa questa ulteriore digressione; “Stillborn (A Fragment)” riporta verso una lentezza più familiare, pur in maniera sghemba, quasi inciampando. Anche in questo caso il minutaggio è particolarmente contenuto e sembra fungere più che altro da tramite al pezzo finale del disco, “Sunborn (Coda)”: il brano è inquietante come la sua melodia e anche quando finisce lascia un senso di irrisolutezza. È come se ancora una volta l’incedere rimanesse in sospeso e lasciasse intendere un “tornerò”. Stabilire se questo messaggio sia un bene, un male o qualcosa di neutro ritengo sia del tutto soggettivo. Nel mio caso ovviamente non posso far altro che sperare che ciò avvenga il prima possibile.