MU, Twelve More Scenes Of MU

MU, Twelve More Scenes Of MU

Un ipotetico continente perduto, sperduto nell’Oceano Pacifico, in realtà mai esistito; ed anche un disco-totem in due volumi di Don Cherry con Eddie Blackwell, e chissà quanto altro, nella testa di Adriano Lanzi e Federica Vecchio, MU, appunto. Un duo (chitarra acustica, elettronica per Lanzi, violoncello per Vecchio) e una pletora di ospiti: Geoff Leigh (Henry Cow, e scusate se è poco), Okapi (il suo penultimo lavoro ci è piaciuto davvero molto), Lino Capra Vaccina, Amy Denio e Giovanna Izzo. Insieme possono ricordare, per chi ha buona memoria per un certo tipo di approccio e di suoni, gli ottimi The Books di Nick Zammuto e Paul de Jong, anche se qui la componente elettronica è meno protagonista. Le note di copertina tirano in ballo le atmosfere maestose ed estatiche di “Wild Blue Yonder” di Werner Herzog (in “Temple Of Mu” e “A Postcard From Yonaguni” qualche eco in effetti si avverte), con una prodigiosa colonna sonora (raccolta, assieme a quella dell’altro lungometraggio “The White Diamond”, nel cd Winter & Winter Requiem For A Dying Planet, musiche di Ernst Reijseger, con il cantante senegalese Mola Sylla e il coro Tenore e Concordu di Orosei): l’atmosfera alle mie orecchie a dire il vero suona diversa, meno vertiginosa, ma comunque densa di un suo personale fascino.

Del resto, come recita la traccia d’apertura, con ospite Okapi (inconfondibile il suo tocco), sorniona e capace di aprire sipari su universi verdi e paralleli (una specie di pop subacqueo e lievissimo), il problema della tragedia è nella confusione che crea. E di confusione benvenuta e calibrata con acume e chiarezza di intenti questo buonissimo disco è pieno, restando piacevolmente sospeso tra allusioni enigmatiche (la già citata “Temple Of Mu”, come un blues di una civiltà ignota, i cui resti sono stati appena fatti riemergere da una squadra di archeologi e sommozzatori), un mood da soundtrack (“Dwellers Of Paradise”), folk di popoli di cui si è persa memoria (su “Yonaguni” una semplice occhiata alla pagina Wikipedia riserva notizie interessanti, e il pezzo è in grado in qualche maniera, con pochi elementi, di tradurre con intelligenza in materia sonora) e numeri outpop speziati di world music  (“Lofoforo Splendido”, con Amy Denio al basso). Orme di musica classica (addirittura una rilettura di Vivaldi nella settima traccia, “Fac Ut Ardeat”), una forma canzone aperta, curiosa, sempre passibile di smottamenti, pronta a dissolversi, venire meno, precipitare in altro, come in un laboratorio dove la composizione degli elementi chimici, altamente instabile, ma calibrata e governata con maestria, possa dar vita da un momento all’altro a qualcosa di nuovo, di diverso. Una sorta di avanguardia accogliente, gentile, dove i segni e il significato si incontrano in una corrispondenza di amorosi sensi per dirti un mistero intraducibile (“Logogrammi”, molto buona, come un canone barocco perso in labirinti di corde e silicio e la voce di Giovanna Izzo a ricordare che dopotutto, siamo ancora e sempre umani, troppo umani); dove, tra forme di vita che giocano a nascondersi incontriamo strane ombre che a loro volta giocano a emulare un Egberto Gismonti cupo e ispido (“Prima E Dopo Il Paguro”). Dove, infine, a chiudere il sipario, cosa resta? Quasi niente, come da titolo dell’ultima traccia, bave di chitarra, una fuga sottovoce del violoncello, l’umanità o questa civiltà che non sappiamo riconoscere ma che appare stranamente familiare (e se fossimo proprio noi?), che abbandona la scena, così com’è apparsa, in punta di piedi.  Un disco ecologico, nel senso più profondo della parola.