MOSCOW, Coward

Avevamo già incontrato i Moscow per via del loro debutto con un ep omonimo. In quella occasione avevamo sottolineato le buone frecce al loro arco e, al contempo, la curiosità di vedere come la band avrebbe saputo capitalizzare l’efficace biglietto da visita per costruire un proprio percorso che non si esaurisse nel mero tributo alle scene noise-rock e postcore a cavallo tra Ottanta e Novanta. La risposta o, meglio, una prima parte di essa arriva oggi con questo Coward, un album in cui i Moscow cercano di trovare il giusto punto di equilibrio tra l’innegabile amore per quei suoni (AmRep, tarda Dischord, Matador…) e la necessaria ricerca di un proprio tratto distintivo. Di sicuro, infatti, la formazione si prende il tempo per elaborare le proprie influenze e attualizzarne il mood alla luce di ciò che in questo lungo periodo è accaduto in campo musicale, sia per quanto attiene a certe scelte sonore che per quanto riguarda la scrittura, così da presentare all’ascoltatore un lavoro vario e mai troppo scontato nel suo alternare suoni taglienti e groove, pulsioni Nineties e scarti in avanti verso ciò che i termini noise e postcore significano oggi (la finale “Jane” ne è un chiaro esempio). Del resto, come da loro stessi affermato, Coward non è propriamente un disco. È una serie di appunti formalmente organizzati che sono il prodotto immediato del nostro incontro, È l’irrazionalità primordiale di ogni comitato centrale, di ogni associazione clandestina, di ogni gruppo di dominati. È l’embrione di un processo. Parole che fotografano la natura instabile e in continua mutazione di una entità alla ricerca della sua natura più intima, della sua forma finale e, pertanto, la consapevolezza di un processo che è ancora lontano dall’essere completo in ogni suo aspetto. Per questo e solo per questo, abbiamo detto poco sopra che Coward è solo parte della risposta, non certo perché il disco non sia di per sé godibile o dotato di una propria ragion d’essere. Al contrario, i Moscow continuano a convincerci e a dimostrarsi un nome per cui mantenere vivo l’interesse, soprattutto alla luce di quel lungo finale, ben nove minuti, da cui filtrano intuizioni e possibili vie di fuga su cui varrebbe la pena indagare ulteriormente. I brani ci sono e colpiscono in modo positivo, si imprimono in mente e non ricordano mai troppo da vicino un particolare padre putativo, ma ne miscelano sapientemente i vari spunti. Come si usa dire, bene così, l’attenzione è stata mantenuta viva.