MONO, Nowhere, Now Here

MONO, Nowhere, Now Here

I Mono stanno per tagliare il traguardo dei vent’anni di carriera. Un’esistenza che ha dato vita a moltissimi album, ep e collaborazioni all’interno di un genere (il post-rock) al quale i giapponesi sono sempre rimasti abbastanza fedeli. In questo nuovo lavoro troviamo dietro le pelli un batterista diverso, l’americano Dominic Cipolla, dato che Yasunori Takada ha lasciato la band a fine 2017 per motivi personali. Per la produzione, invece, è stato ri-scelto Steve Albini.

Nowhere, Now Here non si discosta moltissimo dal passato recente: se il doppio ep di qualche anno fa (The Last Dawn – Rays Of Darkness) vedeva il pianoforte al centro, a veicolare tutto il resto della strumentazione, ora la chitarra, con tutti i suoi classici andamenti (sia legati al genere, sia legati al trademark del gruppo), la fa da padrona. Non vorrei fosse una sensazione legata alla dimensione live dei Mono (li ho visti dal vivo 5-6 volte negli ultimi dieci anni) o al loro andare in tour insieme a band sempre più heavy di loro (A Storm Of Light, The Ocean, Sólstafir, Heaven In Her Arms, Alcest, God Is An Astronaut…), ma ho la netta sensazione che si siano a tratti appesantiti, prendendo molto dal metal e tralasciando sempre di più la dimensione morbida e onirica. In “After You Comes The Flood” e anche nella title-track i colpi sui piatti sono davvero duri e, nonostante assecondino il classico andamento di qualsiasi brano post-rock (tremolo sulle chitarre e climax), questa vena metal si sente chiaramente. Sarà che per me i Mono hanno toccato l’apice della dolcezza con Hymn To The Immortal Wind e anche coi primi due full-length, che possedevano un fattore noise e mantenevano una sezione ritmica molto calda e quasi jazz, ben lontana da questa recente.
Un’altra novità coincide con la bellissima “Breathe”, in cui Tamaki sfoggia una voce celestiale ed eterea, portando un po’ di luce in mezzo a una malinconica oscurità. Tolti alcuni intermezzi, oserei dire di maniera e quasi riempitivi (“Far And Further”), c’è dell’altro di valore, ad esempio “Parting” e “Funeral Song”. In ogni caso, oltre alla già citata “Breathe”, spetta anche a “Sorrow” toccare i vertici dell’album: le note pescate riescono a incarnare perfettamente il titolo della traccia e questo è il classico esempio di quando – senza rivoluzioni, ricalcando decine e decine di brani analoghi – la melodia creata riesce davvero ad evocare qualcosa di unico e degno di essere ricordato. Non che gli altri album dei Mono esplodessero di felicità, ma spesso si poteva intravedere la luce del sole all’orizzonte, delicati paesaggi dalle tinte pastello o ricordi dell’adolescenza perduta; la melanconia del nostro trio era sempre condita con del miele e, sebbene i nostri occhi fossero velati di lacrime, ogni tanto poteva uscire un sorriso dalle nostre labbra. Dal lavoro precedente, quella luce in fondo, fra le foglie degli alberi, si è fatta sempre più lieve, fin quasi a scomparire. E “Meet Us When The Night Ends” ci parla di una notte ancora non terminata: questo buio sottolinea la componente triste e lo sconforto di questi brani. Eppure anche qui il delirio della batteria poteva essere evitato, proprio perché snatura e violenta questo lento viaggio all’interno del progredire delle tenebre.

Bellissima la chiusura, che suona come un ritorno su quei raggi sereni del passato; chissà che non sia il collegamento con il prossimo album…