MOGWAI, As The Love Continues

A nessuno importa di come sono fatti i Mogwai, quanti anni hanno, cosa bevono e ingeriscono prima di salire sul palco, che numero di scarpe portano e tutte quelle maronate da rock star. Come a nessuno dovrebbe importare che questo è il loro decimo album a 25 anni di distanza da “Tuner/Lover”, concepito nella contea del Worchestershire nella regione delle Midlands occidentali con uno Stuart Braithwaite stranamente astemio. Questo perché la loro musica è un tutt’uno, un non-luogo che utilizza le nostre esperienze di vita per stratificare scenari perfettamente congrui con qualsiasi identità.

Nel momento in cui scrivo è mattina, sono in giardino e il sole annuncia la primavera mentre dalle cuffie una voce mi suggerisce “To The Bin My Friend, Tonight We Vacate Earth”: dovrei fare i bagagli e avvisare tutti, ma preferisco contemplare nell’immobilità l’indifferenza delle prime margherite che ostinate puntano la nana gialla in un ultimo slancio di vitalità. Non c’è salvezza? “Here We, Here We, Here We Go Forever” mi allontana dalla distopia grazie a un fraseggio di chitarra pieno di speranza. Mi alzo da terra, l’erba ha solcato la pelle. I sintetizzatori che prendono il sopravvento in “Dry Fantasy” mi tengono su anche se una smorfia di consapevolezza malinconica aggredisce il mio volto intorpidito. I Mogwai raramente si affidano alla lingua, le frasi rischiano di limitare la portata di un brano, intrappolando in parole concetti molto più ampi di uno o più significati. Quando lo fanno, però, riescono a dare quel valore aggiunto, come se mettessero una cornice intorno a un quadro fantastico. Sulle note di “Ritchie Sacramento” i miei piedi iniziano a muoversi e mi portano davanti alla chiesa a lato della mia abitazione, dove le parole del testo acquistano un significato sacro: “All Gone”, tutto andrà, questo corpo nella terra, questo periodo storico, questo pianeta divorato dal sole. Ma vi sto solo rubando del tempo che dovreste usare per ascoltare il disco. Comunque non è ancora il momento di sparire: “Drive The Nail” con il suo incedere muscoloso squarcia il velo oscuro aggiungendo solidità alla struttura Mogwai. Il post-rock… morte e rinascita, desolazione e ricrescita in un brulicare emotivo bizzarro ed attraente. Altre parole filtrate da un vocoder sfilano in “Fuck Off Money”, il loro significato è misterioso, ribollono sotto un mare di sintetizzatori, non ne capiamo la forma, come se fossero un oggetto galleggiante tra le onde schiumose. Venticinque anni di sincerità, probabilmente questo è il più grande segreto della band. Sono longevi e questo potrebbe farli passare per anziani, ma con “Ceiling Granny” rinnovano la loro voglia di chitarre mettendo da parte le “tastierine” per far esplodere quei fantastici big muff in un tripudio che ricorda i Motorpsycho più incazzati e stoner. I titoli delle canzoni, come da tradizione, offrono spunti importanti per interpretarle. “Midnight Flit” è ricca di strumenti, gli archi fanno svolazzare le note dalla cima di un dirupo in una fantastica sera d’estate, quando ancora tutto deve accadere. Davanti a me la città, la vita che fermenta dentro i palazzi e nelle strade, tra le vie con i lampioni soffocati dalle tenebre ed io pronto a tuffarmi in quel fiume di passioni e sentimenti che solo gli umani riescono a creare. Tuttavia, come si descrivono loro, sono solo un gruppo di ragazzi che suonano in una stanza. Sembra impossibile crederlo, così complicati eppure così spontanei. Partendo da un minuscolo puntino raggiungono un’immensità disarmante: “Pat Stains”, supportata dal sassofono di Colin Stetson, ne è una prova perfetta. Nonostante il meglio lo diano nei pezzoni da più di 7 minuti, anche sulla breve distanza dimostrano come sempre di essere all’altezza: “Supposedly, We Were Nightmares” è una cavalcata da appena 4 minuti e mezzo che però rende l’idea e spezza in maniera omogenea prima del finale catartico “It’s What I Wanna Do, Mum”.

A nessuno importa come sono fatti i Mogwai e del perché scrivano canzoni così libere da ogni critica. Lo fanno per loro, che poi, in fondo, siamo anche noi: umani.