Modulisme #2: Benge

Ben Edwards è un compositore, un producer e un collaboratore, e ha creato il suo studio: Memetune. Ho iniziato a lavorare con lui quando era nei Tennis (un duo con Douglas Benford di Sprawl Imprint) e ho pubblicato due suoi dischi sulla BiP_HOp. Successivamente ho avuto il piacere di seguire la sua etichetta Expanding e il suo suonare synth “vintage” sempre più splendidi. (Philippe Petit)

Ascolta la sessione di Benge

Ben Edwards: I synth modulari mi intrigano da molto tempo. Per me sono l’apice dell’espressione musicale elettronica. Non sono mai stato un “tastierista”. Preferisco musica messa insieme in modo più meccanico, mi piace ascoltare le macchine più degli umani. Non mi è mai interessato provare le mie scale o pensare a costruire musica dal punto di vista di una “tastiera”. Mi piace la musica prodotta da alcuni grandi tastieristi, e grandi esseri umani, è solo che la mia rotta di viaggio è lontana da questo e più vicina all’ascoltare le macchine. Ovviamente i computer oggi possono ricreare tutto ciò che può esser fatto con un sistema modulare, ma la differenza per me è che non possono rimpiazzare l’esperienza di essere lì con l’oggetto reale. Viviamo nel regno fisico, ma troppa vita ora sembra vissuta in quello virtuale, e non è dove voglio passare il tempo della mia creatività. Per questo sono così ossessionato dai synth modulari, e non penso proprio di volermi staccare dal mondo concreto!

Su cosa stai lavorando ultimamente, e hai uscite o performance in arrivo?

Faccio parte di tante band, con cui suono spesso dal vivo e faccio piccoli tour. Sono in una band con Stephen Mallinder (Cabaret Voltaire) e Phil Winter (Tunng), si chiama Wrangler. Abbiamo collaborato anche con John Grant, formando una nuova band con lui, i Creep Show. Ho collaborato con Mal sul suo album più recente (Um Dada), che conteneva molto di modulare. Faccio parte anche di John Foxx And The Maths (io sono i Maths), abbiamo un album nuovo in uscita fra mesi, del quale siamo molto entusiasti. Assieme a Neil Arthur (Blancmange) siamo i Fader, e sto facendo anche il nuovo disco di Blancmange con lui. C’è ancora un altro progetto che ho coi miei amici Sid e Dave, si chiama Oblong, stiamo realizzando un nuovo lavoro (è il terzo). Creo anche un bel po’ di Library Music (al momento alcuni nuovi album con Jon Tye a nome Wavelength), e sono stato coinvolto negli anni in molta musica “commerciale”: ogni tanto devo far quadrare i conti! Sono molto fiero di tutto ciò che faccio, tutto con amore e passione, e ogni anno porta nuovi progetti e collaborazioni. Mi sento molto fortunato ad aver lavorato con così tanta gente in gamba in tutto questo tempo. Rende più sopportabile il comporre con macchine senza cuore.

Come ti sei avvicinato alla sintesi modulare?

Nei Settanta i miei genitori gestivano una piccola scuola indipendente nella nostra casa, e c’era una stanza per la musica con uno strano sintetizzatore modulare chiamato “The Black Box”, che utilizzavo per i miei esperimenti quando avevo dieci anni, o forse ero più piccolo ancora. Era stato donato alla scuola da un amico di famiglia ed era una piccola scatola fatta in casa con oscillatori, filtri, modulatori ad anello, tutti patchabili con dei cavetti. Il lettering era fatto tutto con le etichette Dymo. Comunque, ero intrigato da quella cosa e ci suonavo ogni sera. C’era anche un organo elettrico con una drum machine incorporata, poi xilofoni, strumenti a percussione, persino un registratore quattro piste che ho utilizzato da più vecchio, intorno ai 13-14. A sedici anni ho messo su il mio primo studio in cameretta e quando mi sono trasferito nella mia prima casa utilizzavo il soggiorno a questo scopo. Presto tutto si è preso l’intera abitazione e la mia intera vita. A quel punto ho preso il mio Moog (molto economico nel 1994) e un grosso registratore otto piste, e ho realizzato che dovevo farmi uno studio vero e proprio. Ho creato la mia etichetta (Expanding Records) e un mio business commerciale, utilizzando lo studio come il perno di tutti i miei progetti. Col passare degli anni ho pubblicato trenta album di musica mia e più o meno lo stesso numero di dischi collaborativi con varia gente.

E quale è stato l’effetto della scoperta dei modulari sul tuo metodo compositivo? O sulla tua esistenza?

Ho sempre considerato il mio equipaggiamento come parte del mio processo compositivo, proprio come se lo studio fosse davvero lo strumento. L’ambiente ispira tutto, e più sono in sintonia con lo studio intorno a me, più sono ispirato. Il modulare essenzialmente è quell’idea di connettività, interconnessione, combinazione e ricombinazione di segnale e il plasmare il suono e la composizione in ogni modo immaginabile, e più sei in linea con ciò che ti circonda, più puoi crearti una voce unica. Penso che la miglior cosa in ogni studio sia la patch-bay, specie se lo hai pensato in modo che tutto passi per essa. I synth modulari si adattano a questo metodo di lavoro molto bene, ma non bisogna fermarsi all’attrezzatura modulare, qualunque cosa con input e output può essere collegata a una patch-bay e diventare parte di un sistema più grosso. Per me tutta la produzione in studio è parte di questo gigantesco approccio modulare e questa è l’idea che sta dietro al Memetune Studio: tutto è collegato, sintetizzatori, sequencer, generatori di inviluppo, sistemi modulari, ma anche effetti, mixer, computer, registratori, macchinette per il caffè…

Molto spesso chi usa i modulari ha bisogno di ancora più roba, la fame di nuovi moduli è insoddisfabile? Come lo spieghi?

Il discorso sui synth modulari è che sono configurabili in maniera unica ed espandibili, cambiano e crescono come fai tu in quanto artista. È totalmente unico nel mondo musicale che un artista possa far crescere il suo strumento organicamente e continuare a evolverlo. Non lo puoi fare con un violino!

Puoi descrivere per favore il sistema che hai utilizzato per creare la musica di questa sessione dedicata a noi?

Ho utilizzato 13 sistemi autonomi per questo mix.

Ogni parte è stata registrata buona la prima, senza overdub o edit. In altre parole metto una patch sul sistema manualmente e lo lascio fare da solo, oppure interagisco con lui e manipolo i parametri in tempo reale per creare ogni pezzo. Alcune tracce sono state suonate di più dalla tastiera (se presente) e altre erano più in sequenziamento automatico. Ho cercato di lasciar parlare le macchine e ho seguito il flusso il più possibile.

Quale sistema sogni?

Preferisco pensare a che roba ho già e tentare di trovare nuove strade e combinazioni. Quando hai un certo quantitativo di cose le combinazioni ti presentano così tante opportunità che non c’è abbastanza tempo per esplorarle tutte. Mi piace mettere insieme prodotti di manifatture appartenenti alla stessa epoca, dunque per esempio solo Roland di metà anni Ottanta o Korg dei primi Novanta, perché tendono ad avere gli stessi criteri di design e suonano bene insieme.

Ti senti vicino ad altri contemporanei che utilizzano i sistemi modulari?

No davvero! Non fisicamente, sto in mezzo al nulla, né stilisticamente, se penso ad altri artisti che conosco di persona. Ho un approccio simile a quelli dei Sessanta e dei Settanta. Ci sono molti altri artisti che ammiro per il loro approccio alle patch, per esempio Todd Barton coi suoi demo “Krell Patch” è grandioso, e mi è piaciuto Doug Lynner su YouTube coi suoi “patch of the week” per Serge, ma sento che ci sia un gap da riempire, e questo è magari quello che state facendo voi, ne sono certo! Forse il mio punto di vista è quello di considerare l’intero studio come un gigantesco synth modulare, e a dire il vero pure la vita in generale, tutto nella vita è connesso e ci si potrebbe mettere patch se solo si capisse come fare.

Quali pionieri ti hanno influenzato e perché?

Subotnik, Tangerine Dream, Autechre (penso usino modulari, ma non sono sicuro!), questi sono quelli a cui torno continuamente per trovare ispirazione estetica e tecnica.

Che consiglio daresti a chi volesse partire col suo “Modulisme”?

La cosa più importante di tutte è rimanere fedeli a sé stessi e sviluppare una voce unica.