Modulisme #1: Philippe Petit

Ascolta la sessione di Philippe Petit

Philippe Petit, turntablist, proprietario delle etichette BiP_Hop e Pandemonium, conduttore radio, autodefinitosi “agente di viaggio musicale”, è un instancabile esponente della musica elettronica e sperimentale, dato che ha pubblicato più di cinquanta album solo negli ultimi dieci anni, alcuni di questi insieme ad altri “cospiratori”, tra i quali Lydia Lunch, Edward Ka-Spel, James Johnston e Eugene S Robinson

La sua ultima avventura è Modulisme, una piattaforma/etichetta/programma radio con cui promuovere la sintesi modulare, trasmessa in Francia e in Belgio e disponibile on line, con ogni episodio che ospita una sessione di un ospite significativo di questo particolare settore della musica elettronica, sempre in espansione.

Nelle prossime settimane The New Noise rivisiterà queste sessioni oltre a linkare le nuove man mano che arrivano, tutte accompagnate da interviste esclusive con gli artisti coinvolti. Philippe apre la serie e discute della sua passione per tutto ciò che è modulare e “sintetizzato”.

Philippe Petit: Questa sessione è un’improvvisazione col mio Buchla Easel K. Ho cercato di far suonare lo strumento il più naturale possibile, dato che il suo sound è vicino alla perfezione. Inoltre mi piace la sua immediatezza: attacca, metti le patch e comincia… Random, non-linearità, flessibilità, accessibilità fisica dei parametri e dei tipi di interfacce e workflow che un sistema modulare permette è ciò che mi interessa, essendo il gesto e il movimento di grande importanza. Un sistema modulare analogico tipicamente non ha una memoria da richiamare, quindi è per definizione inutilizzabile on stage. I metodi di controllo, per esempio via potenziometri, manopole e joystick, sono spesso non particolarmente lineari quanto a implementazione, né delle dimensioni appropriate, e sono famosi per la difficoltà che c’è nel rimetterli esattamente nella stessa posizione più di una volta.

Suonare diventa molto viscerale, personale e poetico! Ogni volta qualche nuova sorpresa… Buon divertimento!

Quando sei venuto a sapere per la prima volta della sintesi modulare, e che ne pensavi all’epoca?

In un certo senso è sempre stata influente, ma in modo inconscio, dato che mi ricordo che guardavo il film fondamentale “Forbidden Planet” in tv nei primi Settanta e sin da quel momento è stato il mio film di fantascienza preferito. Quella colonna sonora ha continuato a ossessionarmi e ho guardato quella pellicola ogni volta che la facevano, finché sono riuscito a procurarmi l’lp nei primi Novanta. È così che mi sono reso conto dell’influenza delle “tonalità elettroniche” create da Louis e Bebe Barron. Moduli autodistruttivi, non le tecniche che usiamo oggi, ma applicare uno stimolo. “Può esser un voltaggio che entra dall’esterno, oppure il lasciar passare più corrente all’interno cambiando una resistenza o aggiustando un certo tipo di feedback”. Il metodo di controllo era sempre manuale, e infatti questo è ciò che conta per me quando suono o compongo. Mi sento come un artigiano che scolpisce il suono, sono interessato al gesto musicale che può consentire modi differenti di comporre o di fare sound design e a pensare al rapporto tra musica e tecnologia.

Quale è stato il tuo primo modulo o il tuo primo sistema modulare?

Ho usato sintetizzatori per anni, il primo è il mio Buchla Easel K.

Quanto tempo ci è voluto perché tu diventassi capace di attaccare assieme i vari sintetizzatori?

Sto ancora imparando e questo è parte della bellezza del tutto… Puoi trovare molti tutorial, anche un manuale per l’Easel “regolare”, mentre non c’è nulla sull’Easel K; così ho dovuto arrangiarmi, e per fortuna Todd Barton (compositore attivo da quarant’anni, che tra le altre cose è un “insegnante” di Buchla, ndr) è sempre stato molto gentile nel rispondermi quando mi perdevo. Teniamo presente che uno strumento modulare è complesso, può generare infinite possibilità, ma uno deve esercitarsi con tutto lo strumento. Pensa a quelli che si esercitano tutta la vita con – ad esempio – il violino: un sistema vero e proprio è molto più complesso e versatile di qualunque strumento acustico, dunque la mia è una ricerca destinata a durare fino alla morte, e ne sono felice.

Preferisci singoli marchi per creare il tuo sistema (Buchla, Make Noise, Erica Synths, Roland…) oppure ti fabbrichi il tuo sintetizzatore personale per mezzo di componenti individuali realizzati di volta in volta da quella manifattura che soddisfa meglio le tue esigenze?

Mi piace lavorare con sistemi che posso chiamare strumenti, di singole manifatture. Preferisco mantenere piccolo il mio sistema, lavorarci passo dopo passo, così da imparare a usare certi moduli in modi che non troverei se il sistema fosse più grande. Per ora mi appoggio a Buchla, utilizzando un sistema “200” più l’Easel K e l’EMS Synthi A.

Tendi a usare sistemi modulari puri o porti effetti esterni o altro armamentario quando suoni o registri?

Dunque, dipende da che cosa cerco di ottenere. Per esempio per la mia sessione per Modulisme ho voluto conservare la visceralità del tutto, l’averlo fatto dal niente sulla base dello spunto del momento… improvvisazione intuitiva.
Quando compongo cerco di portare dentro alcune parti acustiche, siccome mi piace mescolare l’umano e la macchina, quindi voglio suonare il mio salterio (cimbalom, ndr), alcune chitarre preparate, “inside piano”. Oppure invito alcuni amici per registrare un violoncello, un’arpa elettrica, una tromba… in accordo con la mia visione di quel momento.

Registri direttamente senza overdubbing o finisci per fare multi-tracking ed editing in postproduzione?

Stesso discorso di prima, live è one take. Anche i miei album sono registrati buona la prima, come un bimbo che scopre un giocattolo. Mi piace che sia intuitivo, spontaneo, ma poi posso editare e talvolta utilizzare il multi-tracking. Mi piace pensare a due approcci differenti per la mia musica: live, da sperimentare fisicamente dritta in faccia, una volta sola e mai più la stessa cosa di nuovo. Poi lo studio serve a provare a creare musica che sperabilmente gli ascoltatori torneranno ad ascoltare, così cerco di usare hook differenti.

Che cosa pensi possa essere ottenuto solo con la sintesi modulare che non si riesce con altre forme di musica elettronica o che comunque è più difficile ottenere con altre forme di musica elettronica?

Julie London lo aveva cantato nel suo pezzo… io credo che “Flying To The Moon” poteva essere realizzato solo utilizzando astronavi modulari…

Che “artista modulare” ha influenzato di più la tua musica?

Ce ne sarebbero molti, ma di sicuro Morton Subotnick mi ha trasmesso l’urgenza di comprare un Buchla, poi alcuni lavori di Pierre Henry, il BBC Radiophonic Workshop, che con l’EMS Synthi mi ha fatto finire su questa macchina unica.

Puoi sentire il suono di un preciso modulo quando senti musica, ora che sei entrato nel mondo modulare? Come ha influenzato (o no) il come ascolti musica?

Non mi interessa riconoscere come la musica è stata fatta o riconoscere il suono di qualunque modulo. Mi piace o non mi piace, questo è il mio approccio!

Ha di sicuro influenzato il modo in cui impiego la giornata ad ascoltare musica (o dovrei dire per quanto tempo della giornata ascolto musica). Prima avrei speso ore ascoltando altri dischi, mentre ora investo ore nel cercare di trovare e scolpire un suono, una suite di suoni, nel cercare di capire come i miei moduli interagiscono tra di loro. Se non sto leggendo dei manuali… la vita di un musicista modulare è davvero sexy….

Un consiglio che daresti a quelli che vogliono iniziare a sviluppare il loro “Modulisme”?

Abbiate la mente aperta e tenetevi pronti ad avventure inaspettate…