MIKE PRIDE, I Hate Work

Come ogni fine anno Google pubblica l’elenco delle parole più utilizzate durante gli ultimi 365 giorni, dividendolo addirittura per categorie di ricerca: un giochino che appassiona molti, me compreso. Nonostante non ci sia “Jazz” tra le parole più usate, in questo 2021 il termine ha sempre più prepotentemente preso posto all’interno di articoli, classifiche, playlist, comunicati stampa, in alcuni casi per attirare l’attenzione, ma il più delle volte per un effettivo aumento d’interesse nei suoi confronti. Le motivazioni dietro questo rinnovato amore e timido tentativo di trasformazione in fenomeno Pop sono diverse e molteplici, ma quello che vorremmo è capire quanto nella realtà dei fatti sia stato un genere intorno al quale far nascere nuove realtà (spesso confinanti con l’Hip Hop, un accostamento naturale per due modi espressivi che nel corso del tempo hanno camminato spesso a braccetto). Spicca in questo senso, quindi, un lavoro come quello di Mike Pride nel suo ultimo disco I Hate Work, pubblicato a novembre per la RareNoise Records.

Pride, batterista, nell’arco della sua carriera ha stretto legami artistici con persone diverse in ambiti diversi, fino ad arrivare agli inizi del 2000 a sedersi dietro le pelli durante i live supersonici dei Millions Of Dead Cops, band seminale dell’Hardcore Punk anni Ottanta, ancora oggi in attività. Proprio questo incontro faccia a faccia con un gruppo che fino ad allora non era annoverabile tra i suoi ascolti diventa lo spunto per riscriverne in chiave standard Jazz proprio l’iconico debutto del 1982: Millions Of Dead Cops. La necessità, puramente tecnica, di dover trasportare tutte le ritmiche su degli spartiti è la causa che scatena quest’opera di rivisitazione di ciò che il disco degli MDC è stato per il mondo HC/Punk internazionale: la velocità, il ritmo incessante, le soluzioni caustiche sono abbandonate in virtù di una dilatazione temporale e ritmica degna di un perfetto trio Jazz che cerca di allinearsi allo spirito primitivo dell’opera in rilettura, pur mantenendo un approccio il più classico possibile. L’esempio è subito sotto i nostri occhi nei primi due brani “Corporate Deathburger” e “Business On Parade”, che rappresentano la sintesi perfetta di due mondi in totale antitesi, una convivenza tra conflitto e convivialità. Il rapporto tra i due generi oscilla costantemente, portandoci negli anni Trenta con lo swing di “Dead Cops” o nel più recente passato con la semplificazione armonica e interpretativa dello Smooth Jazz di “And So You Know”, per poi metterci di fronte a uno scontro epocale a metà del disco con “Greedy And Pathetic”, in cui due dei tre ospiti presenti, Sam Mickens e Mick Barr, aiutano ad estremizzare i contrasti tra linguaggi. Non mancano, poi, elucubrazioni al limite del Prog in “She Wants A Partner With A Lust For Life” e grandi scambi di assoli tra strumenti in “I Hate Work” che chiude il disco.

In quest’impresa mastodontica Pride è accompagnato da Jamie Saft e Brad Jones, esperti trasformisti musicali che nella loro carriera avevano già messo mano a contaminazioni simili e che dunque permettono una più approfondita ricerca stilistica e compositiva, regalandoci così qualcosa di coraggioso, folle, affascinante e pieno di tensioni emotive stimolanti. Il consiglio, che trovate anche nei credits del disco, è di accostare l’ascolto di I Hate Work a quello dell’originale, per un maggiore stupefacente viaggio nel magico mondo della creatività musicale di Mike Pride.