Meglio i Baustelle o i Pop-X?

Questa vuole essere una disamina intorno a uno dei numerosi dubbi che sorgono a chi, come il sottoscritto, sono certo di non essere il solo, ha a cuore la famosa e tanto bistrattata musica italiana: d’autore, di non autore, indie… le definizioni e le incomprensioni in questo campo si sprecano.

Pop-X

Cosa c’era prima e cos’è rimasto

È logico provare a partire da lontano, ma non troppo: com’è la musica che chiameremo per comodità “indie-rock”, anche indie-pop va bene, di casa nostra degli anni Novanta? Intendo quella fuori da Sanremo, quella dei club e che piccole etichette pubblicano. Cosa succede al rock indipendente (o alternative rock, ai tempi si chiamava pure così) di quel periodo? Scrivere la Storia di questa grossa corrente non è semplice, probabilmente non basterebbero un paio di libri. Vi basti sapere che più è passato il tempo e più s’è intrecciata, confusa e fronteggiata con molti dei rivoli provenienti dal mercato mainstream, portando a esiti diversi, commerciali e meno.

Intanto incominciamo col dire che il pop-rock “alternativo” degli anni Ottanta era una scatola enorme nella quale entrava di tutto: tolti i nomi più grossi si poteva passare dai Diaframma ai Franti, ai Krisma, a Faust’O, a Garbo… Sto obbligatoriamente sintetizzando, se siete malati terminali di queste cose basta andare in cantina a recuperare i vecchi numeri di Rockerilla, più di qualcosa troverete. Nei Novanta alcuni autori, o gruppi di amici musicisti che si mettono assieme (diciamocelo: chi elenco ha avuto spesso velleità di tipo cantautorale, dando molta importanza ai testi e a volte non è stato solo un male…) in piena epoca grunge, scoprono l’alternative-rock, quello di matrice anglosassone, e incominciano a rielaborarne i canovacci, più o meno bene a seconda della proposta: gli Afterhours soprattutto agli inizi prendono a modello l’alternative statunitense, i Marlene Kuntz in particolare i Sonic Youth, i Ritmo Tribale crossover e hard rock, poi ci sarebbero i più commerciali Bluvertigo e Subsonica, la loro resterà una forma di synth-pop legata a doppio filo all’Inghilterra e all’elettronica, grossa parte del successo è dovuta ai passaggi su MTV Italia.

Sempre nei Novanta – succedeva anche prima e lo sappiamo tutti, solo che è comodo dividere il tempo in decenni, periodi con mode e correnti – si sviluppa un sottobosco underground che va avanti per la propria strada e riesce a rimanere nei cuori di numerosi appassionati, vengono in mente tra i tanti Uzeda, Starfuckers, Massimo Volume, Six Minute War Madness, One Dimensional Man, Madrigali Magri, più Sangue Misto e Assalti Frontali nell’hip hop più radicale, tutta gente che gode di grande rispetto, uno su tutti Bruno Dorella (Wolfango, OvO, Ronin), il quale ancora oggi può contare su un’impressionante street-credibility, e il motivo è semplice: batte continuamente a tappeto l’intero Stivale (e non solo) facendosi un mazzo come pochi. Il campo, più ci si addentra e più è sterminato, come dicevo. Fa specie pensarlo, dato che il nostro non è certo un Paese enorme come lo sono gli Stati Uniti, eppure certi fenomeni proliferano e in alcuni casi registrano un discreto riscontro di vendite. Il pericolo del name-dropping è sempre dietro l’angolo, in realtà ci sono già cascato, dunque si potrebbe continuare all’infinito, credo sia però il caso di citare almeno l’esempio più “grosso”, quello dei CSI, primi in classifica con Tabula Rasa Elettrificata a fine agosto del 1997. La notizia ai tempi fa riflettere perché simbolica di un cambiamento non secondario, proprio quel mondo che include l’indie-rock e la canzone d’autore più alternativa incomincia a vendere di più, ma l’euforia dura ben poco… A questo punto più che mai i campi d’azione si intrecciano, a La Repubblica lo capiscono bene e fanno uscire ogni giovedì, se la memoria non m’inganna, il supplemento “Musica” dove si trovano numerosi articoli dedicati a questo tipo di proposte. Non sono mancati altri talenti che col tempo si sono sbiaditi, vi basti l’esempio di Bugo, uno che è passato da dischi come La Prima Gratta e Sentimento Westernato ai successivi e scialbi esperimenti pop con la major di turno.

Per fortuna ci sono (sempre stati) gli outsider

Flavio Giurato

Il nostro è anche, e soprattutto aggiungerei, il vero Paese degli outsider, questo dato non viene mai sottolineato abbastanza. Posto che rimane sempre difficile trovare un numero consistente di appassionati, l’Italia rimane storicamente monopolizzata e attratta da fenomeni popular amati da un’utenza chiamiamola “generalista”, che ascolta solo determinate radio e legge, quando va bene, certe riviste. Viene ancora spontaneo domandarsi chi conosce Flavio Giurato, i purtroppo parcheggiati chissà dove Klippa Kloppa, Enzo Carella, i Maisie, solo per fare qualche esempio. In un passato ormai remoto c’erano stati veri e propri dropout come Francesco Currà, recuperate l’angoscioso Rapsodia Meccanica stampato nel 1976 per Ultima Spiaggia, etichetta di Ricky Gianco, Andrea Tich (cercate Masturbati per la Cramps) e Mauro Pelosi, il musicista romano ha avuto la fortuna di far uscire i suoi album per la Polydor, ora sarebbe impensabile…, tutta gente che era espressione di una flebile e quasi relegata scuola musicale alternativa alle logiche cantautorali sanremesi, da queste se ne allontana addirittura Lucio Battisti, il che è tutto dire. Ci sarebbe poi il giro che ruota attorno al romano Folkstudio, ma quel tipo di proposte vanno in altre direzioni, di mezzo c’è la canzone politica, quasi un altro mondo… Quelli elencati, dunque, erano autori che la canzone la sapevano scrivere, anche “violentare” in alcuni casi, rari esempi di artisti che faticherete a trovare al Premio Tenco, ma questa è un’altra storia, un’analisi più dettagliata su quello che viene definito meritorio in quel contesto meriterebbe un capitolo a parte, ovviamente polemico dato che hanno persino avuto il coraggio di assegnarlo a Ligabue. Ma non divaghiamo troppo…

… e nei Duemila come gira?

Oltre al già citato Bugo si assiste all’emergere di una pletora di autori e gruppi che cercano in qualche modo di intercettare un determinato tipo di pubblico più “impegnato”, grazie a dischi che riascoltati oggi fanno pensare a bignami esistenzialisti, ma dove in sostanza c’è meno di quello che promettono. A parte le storie-fiume degli Offlaga Disco Pax, dove comunque la sostanza dei testi è innegabile, si distinguono esempi come Le Luci Della Centrale Elettrica (cioè Vasco Brondi), Brunori Sas, Dente, Moltheni, band come Non Voglio Che Clara, Zen Circus, i Marta Sui Tubi, i Verdena, questi ultimi, insieme al Teatro Degli Orrori (nato dai One Dimensional Man) rappresentano l’ala più rockettara e imparentata coi Novanta, ma fanno anche tanti concerti e riescono a staccare parecchi biglietti, insomma ce n’è per tutti i gusti.

Intanto nei sottoscala, e qui torniamo in un mondo quasi parallelo fatto di auto-produzioni e di auto-promozione che da queste parti conosciamo piuttosto bene, continuano a nascere decine di nomi che in pochi si periteranno di portare a galla, nonostante il vertiginoso aumento dei siti web specializzati (“specializzati” nei casi migliori, in tanti il dilettantismo da blogger la fa oggettivamente da padrone…) che hanno cominciato a occuparsi di musiche più o meno alternative e nascoste del solito. Quello che in sostanza sto cercando di dimostrare è che il più che variegato universo “indie” di casa nostra somiglia a un ginepraio nel quale si può fare a sgomitate per un nulla, che da tempo è popolato da artisti che, in band o meno, hanno provato a portare avanti un discorso di tipo autorale, in parecchi casi allineato soltanto ai consolidati canoni anglosassoni.

Arrivano i nostri

Dicevo che in tema di comunicazione e di promozione le cose si modificano di continuo. Le classiche testate cartacee, che portavano – in alcuni portano – avanti un discorso più analitico, col tempo hanno incominciato a vendere sempre meno, proprio mentre l’ascolto non-mediato diveniva via via più semplice, pensiamo al proliferare delle famigerate piattaforme di streaming, non ultimo anche dei social, che permettono – bypassando gli stessi organi di informazione – di far venire a galla tanti e diversi attori di questo campo, forti di – o illusi da – un’esposizione mediatica che nasce direttamente sul web, e qui sta un inghippo che meriterebbe un’analisi a parte. Col tempo si è passati in fretta da MySpace, che era come sbirciare in una cameretta virtuale, a YouTube, dove sembra di osservare direttamente un nuovo tipo di tv. Tornando agli streaming, il fenomeno si è espanso a dismisura, il più potente a oggi resta Spotify, ma anche Bandcamp, che ha una politica diversa dal primo, più vicina ai musicisti, si difende bene. Chiaro che i soggetti più scaltri e decisi riescono a bucare o superare a destra questa bolla di magari effimera visibilità, riuscendo a venderli questi benedetti dischi e a fare sold out ai concerti. Un nome su tutti può essere quello dei veterani Baustelle, che hanno una storia ventennale alle spalle e ad un certo punto vengono ingaggiati da una major, la Warner Music Italia – il particolare non è da sottovalutare – che probabilmente vede in loro anche un buon potenziale economico. La band di Francesco Bianconi si basa su una formula vincente e diretta che nel giro di pochi, studiatissimi dischi, è riuscita a farsi apprezzare da un pubblico sempre più numeroso e a suo modo esigente, ma anche da tanta critica. C’è un però, piuttosto decisivo per chi scrive: non tutti tra questi appassionati e critici riescono a digerirli, anzi, col tempo si è alimentata una fronda che con decisione (tanto in alcuni casi da venire percepita come composta da irriducibili “hater”) tenta di arginare in un certo senso un modo di pensare/interpretare la canzone indie odierna, che assomiglia al frutto di una vena artistica di tipo “manierista”, dato che il citazionismo dei Baustelle è cosi evidente che trovare somiglianze coi Pulp e con alcuni arrangiamenti del Battiato dei Novanta risulta quasi un gioco da ragazzi, questo solo per fare i paragoni più ingombranti. Siamo in pieno campo del postmoderno, altro ideale ginepraio che tutto comprende, è beninteso, ma il loro è un postmoderno  forse troppo studiato a tavolino, con la creazione ad arte di pastiche sonoro-letterari dall’effetto garantito, basti porre attenzione all’ultimo singolo, “Amanda Lear”, che accompagna il disco appena uscito, L’Amore E La Violenza, un concentrato di frasi ad effetto dove la prurigine anche divertita, nel videoclip e nella copertina, vintage e ammiccante, riesce nell’impresa di dare il colpo perfetto al cerchio e alla botte.

Il giochetto sembra funzionare, ma può stancare se alla base manca quella genuinità che fa a pugni col calcolo estetico… Poi ognuno ha le proprie passioni/ossessioni (il pop è anche questo), deve essere ben strano andare a un concerto dei Pop X, vedetevi questo estratto da una recente esibizione torinese.

Loro sono l’espressione più folle di un tipo di canzone elettronica che mi ha ricordato i padri putativi I Camillas, così cheap e che abusa sfacciatamente dell’auto-tune. Quello dei Pop-X è una formula intrinsecamente “tamarra” e in evidente stato di ebbrezza, che ricorda proprio certe discoteche romagnole, in netta contrapposizione alla formula di Bianconi & co. Ascoltate tormentoni come “Secchio”, “Cattolica” e “Noi Saremo Fighe”, la longa manus della romana Bomba Dischi si vede tutta, a dimostrazione che la sanno lunga in fatto di fenomeni, vedi il recente exploit di Calcutta. Tuttavia, anche qui, a molti di voi potrà venire l’orticaria, e siete ampiamente giustificati per quanto mi riguarda…

Riflessioni davanti alla palla di vetro

Forse la musica pop non deve essere soltanto un taglia e cuci fatto ad uso e consumo dell’ascoltatore, ma anche elucubrazione provocatoria, in casi come quello dei Pop-X molto meno sciocca di quello che vuole sembrare, che è puro spasso ed evasione, che “divide” fortemente la platea, alla stessa maniera di quello che provoca la musica dei Baustelle, la scelta di due modelli  così distanti tra loro non è casuale, lo dice l’età stessa dei rispettivi fan. La differenza tra questi due mondi, che credo si guardino senza troppi giri di parole in cagnesco c’è, eccome: da un lato ci si prende forse troppo sul serio, chissà, crescendo si diventa meno sciocchi e più noiosi, posso confermarlo di persona, dall’altro si intuisce che i Pop X vivono sulla loro pelle in maniera volutamente cazzona e adolescenziale la condizione di autori, avete letto bene, le canzoni le sanno scrivere. Direte che sono due facce della stessa medaglia, e in fondo è proprio cosi. A voi la scelta, quindi… ma comprendo benissimo chi decide di evitare come la peste entrambi, non a caso ho elencato una serie di nomi che in fondo c’entrano poco coi due esempi in questione. Una terza via c’è sempre stata per fortuna, anche se a volte non è stato facile trovarla…

Tornando alle due band, è chiaro che sarà il tempo a dire la sua e magari del gruppo originario di Trento ce ne dimenticheremo e invece Bianconi lo vedremo nella giuria del Premio Tenco, anzi, molto probabilmente andrà a finire proprio così. Ogni ascoltatore conserva il diritto di scegliersi i propri piaceri musicali. Io tendenzialmente preferisco sempre una terza via, ma se proprio dovessi scegliere, vi confesso che propenderei per i “cazzoni”, per gli “scemi di paese”, mi annoiano molto meno e mi fanno sentire più giovane…

Grazie a Fabrizio Garau per la preziosa consulenza.