Massimo Carozzi: nascondere il suono alla vista

Massimo Carozzi

Lo scorso autunno il compositore e sound designer di stanza a Bologna ha fatto uscire un lp per la Yerevan Tapes, piccola label che seguiamo da tempo. Data la caratura delle musiche lì ascoltate, ci era sembrato fosse arrivato il momento di approfondire il suo percorso artistico, piuttosto complesso e multidisciplinare.

Lavori nel campo del suono, nel senso più ampio possibile, da tanto tempo. Mi racconti quali sono la tua prima memoria sonora e il tuo primo ricordo musicale?

Massimo Carozzi: La mia prima memoria sonora era sepolta da qualche parte dentro di me. Si è riattivata qualche tempo fa, casualmente. In occasione della morte di Edgar Froese dei Tangerine Dream è apparsa sul mio feed una clip di Aqua, un disco del 1974. L’ho fatta partire e in maniera fotografica mi è tornato in mente il momento in cui l’ho ascoltato, in cuffia, dallo stereo di mio padre. Probabilmente il disco circolava in casa. Avevo sette anni. Per cui la mia prima memoria sonora è legata a un disco, a uno stranissimo disco fatto di effetti elettronici e registrazioni acquatiche.

Quale per te, ammesso che ce ne sia una, la differenza tra suono e musica? 

Senza scendere in analisi teoriche, che richiederebbero più spazio: nella mia attività di ascoltatore, e di musicista, mi interessa e mi incuriosisce nell’organizzazione dei suoni (ciò che chiamiamo “musica”) l’aspetto concreto, timbrico. E cerco nel suono quelle caratteristiche che lo rendono “organizzabile”, ovvero musicale.

Fare dischi non è che una piccola parte della tua attività. Ci spieghi in maniera diffusa cosa fai? 

Nella difficoltà quotidiana di portare avanti la vita in questo Paese, mi ritengo una persona fortunata; nel tempo sono in qualche modo riuscito a trasformare una passione (quella per la musica e per l’ascolto) in un lavoro. O meglio in un lavoro parcellizzato, fatto di molte situazioni diverse che contribuiscono a pagare l’affitto e le bollette e a sostenere una figlia che sta crescendo. Da vent’anni sono parte di un collettivo artistico, ZimmerFrei, che lavora trasversalmente su più fronti: film documentari e videoarte, installazioni sonore e ambientali, serie fotografiche, performance, laboratori partecipativi e installazioni nello spazio pubblico.

Da autodidatta, e facendo molta pratica sul campo, mi sono lentamente costruito una professionalità e lavoro come freelance in produzioni cinematografiche e in documentari, occupandomi dalla presa diretta al sound design, al mix alla composizione di colonne sonore.

Spesso mi capita mentre mixo un lavoro di dover risolvere problemi della presa diretta e di maledire il fonico (che sarei poi sempre io).

E da qualche anno ho un insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Bologna e all’Istituto di Arti Applicate e Design (IAAD), sempre a Bologna.

Viviamo in un’epoca dove mi pare che manchi sempre più un approccio ecologico al suono, un’educazione all’ascolto, all’interpretazione. Che ne pensi e come lavori, se lo fai, da questo punto di vista sia in Accademia che negli altri tuoi campi d’azione?

Cerco di trasmettere un’idea di ascolto attivo, creativo. A volte basta sottrarre alla vista il primato fra i sensi, perché comincino ad emergere dettagli e sfumature che altrimenti resterebbero sullo sfondo della percezione. Questo accade quando si ascolta un brano musicale e può accadere quando si è immersi nella realtà, esposti al paesaggio sonoro che ci circonda. Una linea di basso che si incastra in una frase di pianoforte, i passi che rimbalzano sotto ai portici, il gioco delle voci casuali, pezzi di frasi che diventano linee di testo.

Credo anche che cercare di privilegiare l’ascolto possa fornire una lettura diversa della realtà, più trasversale, meno scontata, e per questo più ricca.

Mi viene in mente una frase di Tom Waits in un’intervista ai tempi del capolavoro Bone Machine, dove diceva che adorava il suono delle lamette arrugginite sulle persiane. Quali sono i suoni che ti affascinano, quali quelli che trovi interessanti in generale,  e come funziona la tua attività di field recordist?

Mi sono avvicinato al mondo delle registrazioni ambientali alla fine degli anni Novanta, in maniera intuitiva, con il primo registratore portatile che mi capitò fra le mani, un minidisc recorder Aiwa. Catturavo piccoli frammenti sonori dalle situazioni che mi circondavano, e cercavo di integrarle in collage sonori o più spesso nella scena sonora degli spettacoli in cui lavoravo come fonico o sound designer. Era un modo di trasportare pezzi di realtà in altri contesti.

Nel 2004 partecipai ad un seminario nei dintorni di Udine, organizzato da Renato Rinaldi e tenuto da Akio Suzuki (uno storico sound artist giapponese) e da Alber Mayr (un compositore che si è occupato, fra i primi in Italia, di Paesaggio Sonoro, e collaboratore del World Soundscape Project, fondato e diretto da Raymond Murray Schafer). Il lavoro fatto in quei giorni mi ha avvicinato in maniera più consapevole e profonda al mondo del suono d’ambiente e alla pratica dell’ascolto creativo. In quegli anni ho anche cominciato ad occuparmi professionalmente di presa diretta cinematografica e ad interessarmi alle tecniche di microfonazione e di registrazione. A margine di queste esperienze lavorative ho cominciato a costruirmi un archivio di registrazioni, da utilizzare più che altro come banca sonora per i progetti di mix e montaggio del suono in cui ero coinvolto. Ascoltando, selezionando e archiviando questi materiali mi sono reso conto che alcune di queste registrazioni avevano delle potenzialità per così dire “musicali”, ovverosia si prestavano ad essere riascoltate, avevano uno strano potere evocativo. È così che mi sono trovato ad assemblare la mia prima raccolta di field recordings, Positions, e a stamparla su vinile.

Successivamente Matteo Castro mi chiese di pensare a una serie di registrazioni ambientali pure da pubblicare su cassetta su Second Sleep, e così è nata la serie Punti Sulla Curva.

In queste raccolte i materiali vengono presentati così come li ho registrati, non uso effetti né editing, l’unica decisione riguarda il punto di inizio e quello di fine dei brani. Per me sono come dei libri di fotografie, declinati nel suono.

Intorno al 2015 ho poi cominciato a presentare questi materiali dal vivo, in forma di diffusione, di solito al buio completo e in quadrifonia. Le registrazioni sono mixate e sovrapposte e l’idea è di costruire ambienti in bilico fra l’astrazione e il realismo puro, fra il plausibile e l’implausibile. Questo lavoro si chiama Safari. 

Perché registrare degli audio-documentari? Ti sembra plausibile chiamarli così? O sono racconti senza parole, in qualche maniera?

Mi sono appassionato al documentario sonoro attraverso una trasmissione di Radio 3, “Tre Soldi”, dedicata a questa forma di racconto. Va in onda ogni giorno dal lunedì al venerdì, la sera, mentre di solito sono impegnato a cucinare. Nella mia attività legata al lavoro con i documentari, l’intervista, il racconto, il parlato hanno un ruolo centrale. Se togli le immagini dai nostri lavori, resta comunque una certa potenza evocativa data dalla grana delle voci e dagli ambienti sonori in cui sono immerse.

Negli ultimi anni ho realizzato due lavori ibridi, in bilico fra mappa sonora e documentario sonoro, dedicati a due spazi urbani: Ponte Sonoro, su un quartiere storico della città in cui sono nato, Massa, e Zona U, sulla zona universitaria di Bologna. Si tratta di due lavori che vanno ascoltati direttamente nei luoghi in cui sono stati registrati, in cuffia. Ogni registrazione va ascoltata nel punto esatto in cui è stata raccolta e il montaggio lo fanno gli ascoltatori, muovendosi fra i punti della mappa. L’effetto è in qualche modo straniante: ascolti qualcosa che è legato a quel luogo, ma che già appartiene ad un passato, e vedi la realtà di fronte ai tuoi occhi che trattiene qualcosa di quei frammenti sonori che stai ascoltando: Zona U; Ponte Sonoro.

Da qualche mese sto lavorando ad un documentario sonoro sulla vicenda del TPO di Via Irnerio, un centro sociale bolognese attivo fra il 1995 e il 2000. Ho raccolto più di trenta ore di materiale in forma di interviste ai protagonisti dell’epoca e altri materiali d’archivio, sono nel bel mezzo del montaggio. Si chiamerà “Cinque Anni di Desiderio”.

Parlami un po’ più diffusamente di questo documentario sul TPO. Ho studiato a Bologna da metà anni Novanta e ci ho visto un sacco di concerti clamorosi, era un posto davvero notevole. 

Nel novembre del 1995 un gruppo di lavoratori dello spettacolo, di artisti e di studenti dell’Accademia occupa gli spazi del Teatro dell’Accademia di Belle Arti. Nasce così la vicenda del TPO (Teatro Polivalente Occupato) di Via Irnerio. Nell’arco di cinque anni lo spazio si apre alla città divenendo uno dei luoghi di aggregazione culturale più rilevanti a livello nazionale, ospitando le principali compagnie del teatro di ricerca degli anni Novanta, proponendo concerti jazz e di musica sperimentale, organizzando i primi rave e divenendo in breve tempo un luogo di sperimentazione politica ed esistenziale per la generazione che vedrà soffocare le proprie istanze nelle giornate di Genova 2001. Insieme ai miei studenti del corso di Sound Design dell’Accademia di Belle Arti di Bologna abbiamo intervistato i protagonisti di quella vicenda, e abbiamo digitalizzato e archiviato materiali audio e video girati all’epoca. Oltre a lavorare sul formato del documentario sonoro in una dimensione collettiva, mi interessava mettere a confronto due generazioni molto diverse: chi aveva vent’anni nel momento in cui il documentario veniva girato e chi li aveva nel 1995, attorno a uno spazio, quello del Teatro dell’Accademia, per capire anche che cosa di quella esperienza potesse riverberare nella contemporaneità.

Mi racconti qualcosa del tuo rapporto coi Massimo Volume, con gli Starfuckers, dell’esperienza El Muniria?

Ci sarebbe moltissimo da dire, è più che altro la storia di un amicizia. Mimì e Vittoria sono le primissime persone che ho conosciuto quando sono arrivato a Bologna, ormai trenta anni fa. Sandro, Manuel e Chicco li conosco anche da prima, da quando eravamo veramente dei ragazzini. Per cui posso dire che sono cresciuto insieme a queste persone, è stato un percorso di formazione, esistenziale più che artistica. Ci siamo scambiati moltissimo lungo questi anni. E continuiamo a farlo anche ora che quasi tutti abbiamo figli.

Non hai mai voluto suonare uno strumento “vero”? Se avessi modo di impararne uno ora, su quale ti concentreresti, e perché? 

Non aver imparato a suonare uno strumento è stato per lungo tempo, diciamo fino ai trent’anni, fonte di frustrazione e di sensazioni di inadeguatezza. Non so perché da piccolo non mi ci sono dedicato, forse perché preferivo giocare a pallone, boh.
Ho superato questa impasse quando ho cominciato a mettere le mani concretamente sui suoni, registrandoli, assemblandoli, cercando di trasformarli in qualcos’altro. Ho cominciato campionando frammenti da dischi che mi piacevano e a trasportarli in contesti diversi, facevo collage sonori. E forse viene da lì il mio amore per la Musique Concrète francese.
Da parecchi anni cerco, a fatica, di trovare il tempo e la costanza nello studio e nella pratica della sintesi modulare, e questa è la cosa che per me più si avvicina a “suonare/studiare” uno strumento. Se dovessi imparare uno strumento classico ora, mi piacerebbe il vibrafono, vorrei imparare a suonare come Bobby Hutcherson in “On This Night” di Archie Shepp. Ma, ahimé, è un desiderio destinato a rimanere inesaudito.

Veniamo al disco. Banalmente, come nasce, come hai lavorato: strumenti, tempi, luoghi, collaborazioni, intenti. 

Il disco nasce da lunghe sessioni di registrazione, prevalentemente notturne, fatte su un piccolo sistema modulare: un sequencer, due oscillatori, filtri, inviluppi ed effetti. Successivamente da queste registrazioni, in prevalenza informi e non strutturate, ho selezionato le parti che mi sembravano più interessanti e funzionali ad un discorso compositivo, ed ho cominciato ad assemblarle, integrando questi materiali elettronici insieme a selezioni dal mio archivio di registrazioni ambientali. Successivamente ho chiesto a Vittoria Burattini, Manuel Giannini e Dominique Vaccaro di contribuire ad alcuni dei brani. Da questo processo, e da questo periodo di lavoro, che risale a grandi linee al periodo 2010-2016, sono venuti fuori due dischi: Scatole (pubblicato su cassetta da Random Numbers) e Night Shift.

Parlami di “Echelon”: un pezzo ipnotico, spiazzante, gelido.

Il brano nasce da una sequenza molto semplice, un pattern di 8 step suonato da due oscillatori analogici. Ho lavorato su questo pattern isolando le note e gli accenti, applicando diverse linee di ritardo e delay, complicandone l’assetto ritmico e cercando però di mantenere l’intreccio leggibile. Successivamente ho chiesto a Vittoria di suonare su questa struttura, dandole dei riferimenti musicali precisi, ovvero il drumming di Jaki Liebezeit nei dischi dei Can e quello di  Mani Neumeier nel disco Zero Set di Moebius, Planck e Neumeier. Da questo impasto nasce “Echelon”. 

“Oktogon”, invece, ha un che di Stockhausen, bestemmio? 

Direi di no. La parte elettronica sicuramente richiama certe sonorità tipiche della musica elettronica e della tape-music degli anni Cinquanta e Sessanta.

Le due versioni di “Oktogon” vengono da registrazioni che ho fatto a Budapest nel 2017. Stavo lavorando a uno spettacolo teatrale e avevo a disposizione una grande sala prova per la danza, nei pressi di Oktogon, un grande crocevia  nel centro della città. La parte elettronica viene da una patch autogenerativa, ovverosia un sistema di connessioni che, in un sintetizzatore, opportunamente programmato, crea funzioni e sequenze sempre diverse e cangianti nel tempo, un suono che si costruisce ed evolve autonomamente. Dopo ho chiesto a Vittoria Burattini e Manuel Giannini di interagire in improvvisazione con questa parte elettronica. Con Vittoria è stata un po’ una sfida perché non ama suonare su strutture così informi, è una batterista con un grandissimo senso del groove, dal suono personalissimo e immediatamente riconoscibile, ma refrattaria a muoversi su strutture così aperte. Il risultato è stato sorprendente e per me piacevolissimo, abbiamo messo molta cura nella microfonazione per tirare fuori un suono il più possibile organico, per dare una sensazione quasi tattile delle pelli e dei legni. Ero invece certo che questo tipo di situazione sonora sarebbe stata uno sfondo ideale per la chitarra di Manuel. Sono due brani speculari, in cui volevo dare l’idea di due musicisti che si muovono con i loro strumenti in una stanza, alle prese con un suono sfuggente, astratto. Ed è per questo che li ho messi al centro delle due facciate del disco. 

Dove sta la “Southern Line”?

La registrazione dei materiali che successivamente sono confluiti in “Southern Line” risale alla fine del 2016. Mi trovavo per lavoro nel Teatro dell’Ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, a Milano, e avevo a disposizione uno spazio enorme attrezzato per lavorare con il suono. Avevo con me la strumentazione e di notte, finito il lavoro, registravo quello che usciva dalle macchine. Southern Line è un brano dalla struttura semplice: è una sequenza di synth filtrata attraverso una catena di riverberi e successivamente diffusa nello spazio del Teatro del Paolo Pini (un grande spazio in cemento rivestito di piastrelle in ceramica, molto riverberante) e ri-registrata in quello spazio. La parte “narrativa” del brano ha preso forma quando ho cominciato montare una serie di registrazioni ambientali che avevo raccolto durante un viaggio notturno in treno, fra Bangkok e Chumporn, in Thailandia. È così che l’insieme ha preso un’atmosfera quasi cinematografica, un lentissimo piano sequenza sonoro che procede nel buio.

Più in generale, dove “vai” quando suoni? Vedi i mondi che si creano e te ne accorgi solo una volta che sono apparsi,  funziona  come dice Cortázar: Mi pare di averti già detto che io non penso mai. Sto come fermo ad un angolo vedendo passare quello che penso, ma non penso quello che vedo, oppure c’è sempre una precisa intenzionalità, una volontà che fa prendere una direzione alle cose?

Di solito le idee musicali partono dall’ascolto, o da qualcosa che ho registrato. Se isolo un evento sonoro penso a come integrarlo in un discorso compositivo. E spesso ci si allontana da un’idea di partenza per andare verso qualcosa di sconosciuto. La parte più laboriosa per me è capire quando un lavoro ha una forma definita, conclusa. C’è sempre qualcosa che si può sottrarre, degli spazi che possono essere svuotati.

Cinque cose sonore che dovremmo tutti ascoltare per stare meglio, o per stare peggio, comunque per modificare il nostro stato attuale.

Circa a metà di “Turiya And Ramakrishna” di Alice Coltrane, dopo un crescendo che definirei estatico, il basso di Ron Carter resta solo, nudo, sospeso sugli appoggi sommessi del piano di Alice e dei tamburi di Ben Riley.

L’intreccio di batteria e basso fretless (Phil Collins e Percy Jones) e il momento in cui entra la viola di Cale in “Sky Saw” di Brian Eno.

He Loved Him Madly”, la trenodia che Miles Davis incise nel 1974 pochi giorni dopo la morte di Duke Ellington. La tromba di Davis entra dopo sedici minuti di intrecci lugubri di chitarre elettriche, basso e batteria: gli strumenti si fanno da parte e aprono un varco per l’ingresso di Davis, un fantasma nero come la pece.

La voce in falsetto di Steve Roden in “The Radio.

Il suono dell’HiHat in “Be My Husband” di Nina Simone, e in generale lo spazio fra i suoni e il riduzionismo estremo di questo brano.

E infine una cosa che non hai mai ascoltato e che vorresti ascoltare.

Non mi è mai capitato di assistere ad un concerto di Nick Cave & The Bad Seeds.