MARY HALVORSON OCTET, 11/11/2018

Mary Halvorson - foto di Nicola Malaguti

Mantova, Conservatorio di Musica “Lucio Campiani”. Foto di Nicola Malaguti, che ringraziamo molto.

Prima italiana assoluta per questa nuova formazione della chitarrista Halvorson, un nome da tempo sulle bocche di chi bazzica le vicende del jazz più interessante e attuale, ed altro strike per Mantova Jazz dopo il concerto di Egberto Gismonti. Era tanta la curiosità per questo esordio dalle nostre parti per una musicista già ascoltata ed apprezzata in mille altri assetti (dai dischi a suo nome alle collaborazioni con Weasel Walter e Peter Evans, dal Trio Convulsant di Trevor Dunn ai People con Kevin Shea, fino al recentissimo duo con Bill Frisell) e che è salita alla ribalta anche grazie all’apprendistato con sua maestà Anthony Braxton (la vidi nel 2012 nell’ensemble 12+1 alla Biennale di Venezia), dimostrandosi capace comunque di ritagliarsi uno spazio tutto suo, grazie a una personalità del tutto peculiare e a un innegabile talento.

Susan Alcorn - foto di Nicola Malaguti

Il collega Bettinello, con la consueta puntualità, nel suo pezzo per il Giornale della Musica ha evidenziato il carattere laterale, in quale modo bizzarro, perturbante, della musica di Mary; personalmente, pur ritenendo molto interessanti e ben argomentate le sue riflessioni, non ho trovato invece tutti i motivi di inquietudine che vado ricercando spesso quando mi trovo a sentire un concerto di questo tipo. Certo, il mood generale era di Americana lievemente ubriaca, come un Charles Ives proveniente dall’Area 51, e ci sono alcune caratteristiche del progetto che lo rendono senza ombra di dubbio assolutamente interessante e di buonissimo livello: l’impasto timbrico (un quartetto di fiati, sezione ritmica, chitarra elettrica e lapsteel), le partiture, sempre esatte e sghembe, e un clima generale da marching band superevoluta, o da fanfara sottilmente nevrotica con i profili di Threadgill e di Zappa (quel fare matematico, ripido e beffardo) ad annuire sullo sfondo. Però, all’orecchio di chi scrive, tutto resta a volte troppo composto, troppo trattenuto, algido, distante. L’inizio ci fa scorgere ombre di musica da frontiera, con anche una bella citazione di “Bella Ciao”, suonata come avrebbe potuto fare Gary Lucas. La lapsteel di Susan Alcorn aggiunge quanti di benvenuta stranezza all’impasto sonoro, e sono baruffe organizzatissime, lampi di fire music con un po’ di gastrite e del tutto asciugata dal blues; un ibrido obliquo e difficilmente classificabile, tra ipnosi à la Steve Reich (certe vertigini ossessive della chitarra, plastica dimostrazione delle frequentazioni non ortodosse della leader), fragranze quasi pop (certi frangenti cantabili) e orme di bluegrass. In altri momenti sembra di vedere una scena di un “Taxi Driver” rivisitato con Travis Brickle laureato al M.I.T., soliloqui di trombone e sax alto sul lato destro, vampe e lapilli di lapsteel e chitarra sul sinistro, un percorso perfettamente accidentato e scosceso, pericoloso e finalmente denso di fascino quando si apre al caos.

Foto di Nicola Malaguti

Fujiwara alla batteria è puntuale ma un po’ scolastico e legnoso, poi arriva un loop affilato come le dita e la figura della Halvorson. John Hebert al contrabbasso (un sosia fatto e finito del Walter White di Breaking Bad) abbandona nel solo le buone maniere che l’ottetto invece sembra aver timore di lasciare per un momento da parte. Poi è il turno di un pezzo non incluso in Away With You, il disco su Intakt presentato stasera: si intitola “Fortune Teller” ed è un quasi Sun Ra, con le corde a mimare le tastiere fantasmagoriche di Hermann Blount, a cui rispondono i fiati orchestrati secondo linee nitide e sempre appena un po’ volutamente storte. La scrittura è matura, felicemente spigolosa, l’interpretazione impeccabile ma decisamente un po’ di controllo in meno alle mie orecchie sarebbe stato ben accetto. Quando le maglie della rete si sfrangiano, in effetti le cose funzionano alla grande. Fantastico il solo di John Irabagon (il resto della sezione fiati è composto da Ingrid Laubrock al tenore, Jacob Garchik al trombone e Dave Ballou alla tromba), suonato come se lo strumento andasse in reverse, su un groove funky che deraglia, poi è il turno di un altro inedito, “Rolling Heads”, che ci mostra quel punto dove elettroacustica, classica contemporanea e jazz si sfiorano arrivando anche a toccarsi, seguendo linee infinite e non sempre evidentemente parallele. Per chiudere, un  buon concerto che ci lascia con la curiosità intatta di seguire gli sviluppi che avrà l’avventura di Mary Halvorson, ma che non ci ha regalato i sussulti che speravamo.

John Hebert