MARTINA BERTONI, Electroacoustic Works For Halldorophone
L’halldorophone è stato inventato a inizio Ventunesimo Secolo dall’islandese Halldór Úlfarsson, che egocentricamente gli ha dato il suo nome. Se ho capito bene, ha quattro corde, sembra un violoncello, ma è in parte elettrico, funziona con un sistema di feedback positivo, secondo il quale – grosso modo – le corde vibrano, un pickup le “sente”, trasmettendo un segnale agli altoparlanti incorporati nello strumento che le fanno rivibrare, innescando appunto un ciclo di eventi che si autoalimenta. Se il nome “halldorophone” non è nuovo per qualcuno, è perché Hildur Guðnadóttir ne è una specie di ambasciatrice: lo ha utilizzato per “Joker”, per “Sicario: Day of the Soldado” e “Chernobyl”. Il compianto Jóhann Jóhannsson, inoltre, le aveva chiesto di suonarlo per la sua colonna sonora di “Arrival”. La stessa cosa hanno fatto i Sunn O))) quando l’hanno coinvolta in Pyroclasts. Già, perché, se non si fosse capito, col halldorophone si producono bordoni.
Mi viene da pensare che fosse quasi inevitabile che la “violoncellista aumentata” Martina Bertoni si incuriosisse. Ha suonato l’halldorophone presso i famosi EMS (Stoccolma), si è portata a casa a Berlino le registrazioni fatte lì con due microfoni, dato che – cosa interessante – non puoi attaccare questo strumento a una cassa, e le ha rielaborate ottenendo quattro brani: a non sapere la spiegazione di tutto, avrei sicuramente scritto che all’origine dell’album c’è un cordofono, filtrato da un laptop in maniera un po’ fennesz-iana, impressione favorita dalla punteggiatura quasi glitch delle tracce, quasi fossimo dalle parti di Un Peu De Neige Salie di Bernhard Günter. Per il resto Bertoni è stata molto brava a ottenere qualcosa con una sua coerenza estetica: contemplativo ai massimi livelli, placido, ai limiti del silenzio, per questo in qualche modo notturno o paragonabile ai momenti prima di un’alba, non fosse che ogni tanto la sensazione, come col suo Solaris, è quella di trovarsi nello spazio. La scelta riduzionista/minimalista per la copertina, in qualche modo, racconta già tutta la storia: forse siamo nello spazio, quel biancore è una nevicata in cui smarrire il proprio sguardo da una finestra, nella pace del primo mattino del primo giorno dell’anno, quando tutti sono finalmente a dormire.
P.S. Bertoni è sulla nostra compilation. Ascoltatela, se non l’avete fatto.