MARC RIBOT, 9/5/2017

Lido Adriano (Ravenna), CISIM – Crossroads 2017.

Al fondo di tutto alberga una grande semplicità, diceva Dostojevskij, e non possiamo che essere d’accordo: una Gibson acustica vissuta, spettinata, con le corde a penzolare dal manico, due microfoni per catturare anche il minimo sfregamento, in qualche rarissimo momento la voce, null’altro. Così si presenta Marc Ribot, il cui live, all’interno della rodata rassegna itinerante Crossroads, è stato l’ennesima occasione di avvicinare dal vivo l’arte di un genio, famoso per le collaborazioni in ogni ambito (da Zorn a Waits, per citare i più eclatanti), i mille progetti (dal trio Ceramic Dog agli Young Philadelphians, dai Los Cubanos Postizos ai dischi in solo) e capace di ipnotizzare il pubblico stipato nello spazio bello e raccolto del CISIM con una performance davvero magistrale. Poche le presentazioni, se non per una composizione del suo maestro, il compositore haitiano Frantz Casseus, qui riproposto in un delicato calypso, ed altri due pezzi, uno di Albert Ayler, l’altro di sua maestà Coltrane, quasi a confermare la frase di Ayler (“Trane was the father, I was the Holy Ghost”) e a voler pagare il giusto tributo alla tradizione, alle divinità. E divina è l’abilità del chitarrista di Newark di far letteralmente parlare lo strumento, tra una cocciuta, sommessa e sghemba attitudine blues, astratte geometrie da “contemporanea”, polverosi e dimenticati angoli prewar folk (illuminante in questo senso il bis, con una pugnace e già classica protest song), vertigini di puro espressionismo improvvisativo, emicranie ed epifanie jazz, fragili e solidissime costruzioni che a volte sembrano sul punto di crollare, ma che miracolosamente restano sempre perfettamente in piedi, con un’eleganza anti-retorica che lascia senza parole.

Mentiremmo se dicessimo che abbiamo riconosciuto, al di là delle brevissime chiose di Ribot stesso, altri brani, ma poco importa; a fine spettacolo siamo andati a curiosare sul palco per vedere di capire meglio quali pezzi ci avesse suonato e la visione del foglio sul leggio, non dicendoci nulla, ci ha detto tutto: Star Trek, Jingle Bells, La Marsellaise, L’Internazionale, indicazioni vaghe e disordinate, nessuno spartito e solo qualche titolo. Chissà se le ha suonate per davvero, noi non ce ne siamo accorti, ma tutto si tiene tra le dita e la testa dei grandi.

I only sing in case of emergency, confessa al momento del secondo bis, quando ci regala una clamorosa canzone cantata con piglio amaro e sanguigno, da hobo, e suonata con un ukulele sdentato, che pare presa di peso dall’Anthology of American Folk Music di Harry Smith.

Piedi ben piantati a terra, rami capaci di aprirsi in ogni direzione, radici che si nutrono di tradizioni profonde ed ancestrali. Ribot, musicista saggio e spericolato, è un albero da cui crescono frutti rari e buonissimi. È stato un privilegio poter bivaccare in devoto silenzio per un’ora tra le bellissime ombre disegnate dalle sue frasche…

Grazie a Giampaolo Solitro per le foto.