MANES, Torstein Parelius

Manes

Con Torstein ci si conosce da tempo, da quando ho avuto la possibilità di seguire Vilosophe come promoter oltre che come fan di quell’incredibile album. Da quel momento ci siamo persi e ritrovati varie volte, ma ho sempre continuato a seguire con interesse il percorso dei Manes, una band che ha saputo creare un linguaggio personale e di grande impatto, figlio di un approccio eretico e di una curiosità incessante. Persona dotata di sagacia e ironia, oltre che amante della provocazione, Torstein è la classica mosca bianca all’interno di un ambiente sempre troppo pronto a prendersi sul serio, ma del resto questo vale anche per gli stessi Manes, con buona approssimazione una realtà sfuggente e fuori dagli schemi, ma anche tuttora in grado di tirare fuori dischi unici come il nuovo Slow Motion Death Sequence.

Sembra che abbiate deciso di continuare la tradizione di band disinteressata al realizzare un disco all’anno. Vi dedicate a molti side-project (Manii, KKoagulaa…) e vi prendete lunghi periodi di pausa. Dovremmo considerare, forse, i Manes più una sorta di collettivo o magari una nave madre? Come vi descriveresti a chi non vi segue da sempre?

Torstein Parelius: Un collettivo mi sembra una buona definizione, perlomeno sarebbe più corretto di band. Non che viviamo insieme, ci sediamo in cerchio o cose del genere, ma la cornice dei Manes fluttua in modo abbastanza libero. Il nucleo è rappresentato da quattro persone che seguono ogni aspetto della musica. Mettiamo insieme le idee, le accantoniamo, registriamo e così via. Poi, ci sono delle persone molto vicine a questo nucleo, con cui abbiamo lavorato in modo stretto da anni. Il più importante è Asgeir, che si occupa delle vocals principali. È con noi da Vilosophe e il motivo per cui non fa parte del cerchio più stretto è che si occupa solo della voce, mentre è più o meno distaccato dagli altri aspetti. Può mostrarsi furioso su come vengono alcuni brani via via che il processo va avanti, ma non mette mano agli arrangiamenti, nel mixing o altro. Lavoriamo anche con Tor Arne, che si è occupato di alcune parti di batteria su Slow Motion Death Sequence e che in pratica è stato il nostro percussionista in ogni concerto. Le persone sono più coinvolte in alcuni aspetti, meno in altri.

Slow Motion Death Sequence appare come un album dal forte impatto emotivo, con un nucleo intimo/personale. Credi sia stato influenzato dalla vostra vita al di fuori del vostro ruolo di musicisti?

Di sicuro, ma non nel senso di riferirsi a qualche episodio specifico. Speriamo di – e ci sforziamo di – creare musica che abbia in qualche modo un impatto emotivo e non credo che questo possa essere artefatto o finto. Cioè, può esserlo, ma comunque non nel nostro caso. Lavoriamo in modo sincero guidati dal nostro istinto, nessun set di strumenti prestabiliti, né dogmi di genere, solo ascoltando ciò che per noi funziona per poter catturare determinate emozioni.

Seppure non sia convinto si possa considerare un vero concept, di certo è legato al concetto di morte e a un mood notturno. Siete interessati a discutere questi aspetti o preferite che ciascun ascoltatore tragga una propria esperienza personale dalla vostra musica?

Vogliamo che gli ascoltatori investano nella nostra musica, se questo ha senso. Vogliamo che l’abisso risponda al loro sguardo, che ci sia immersione e interpretazione prima delle spiegazioni. Ma sì, direi la morte e il morire.

Da un punto di vista musicale, il disco segue il vostro percorso e alle mie orecchie mostra un legame profondo con Vilosophe, un punto di svolta non solo per i Manes ma per molti dei vostri fan della prima ora, costretti ad affrontare un drastico cambio di rotta. Oggi siete considerati nei ranghi dei pionieri che hanno traghettato la scena estrema verso l’elettronica, così da dar vita a quello che viene definito comunemente avant-garde metal. È un ruolo con cui riuscite a relazionarvi dopo così tanti anni? 

In realtà, non c’è un legame voluto con Vilosophe, in alcun modo. Neanche nel processo di realizzazione. Per cui mi suona strano, sebbene molti sembrino averlo riscontrato. Non so che dire, di certo non è un album del tipo “ritorno alle origini” o cose del genere, anche perché è una frase che spesso mi allontana dai dischi. Non direi, poi, che possiamo considerarci dei pionieri dell’avant-garde almeno a livello mentale, non siamo in gara per diventare il nuovo capriccio di Pitchfork perché mischiamo il genere 1 con l’imprevedibile genere 2, o almeno speriamo di non passare per quel tipo di band. Soprattutto perché siamo decisamente disconnessi da ogni tipo di scena all’interno del mercato discografico metal. Per questo è davvero difficile risponderti: ascoltiamo musica e facciamo musica, tutto qui.

Il nuovo disco ha un sapore dolce/amaro, contiene alcune melodie accattivanti che entrano subito in mente, ma ha anche un retrogusto malinconico/opprimente che permea l’ascolto. Quale percezione avete della vostra musica e quali emozioni vi ha provocato al primo ascolto a lavoro concluso?

Se mi è concesso dirlo, mi piace molto. Trovo anche che alcune parti siano molto emozionanti, anche se poi distinguo i molti dettagli, mi ricordo delle fasi di registrazione o delle sessioni in studio e penso a cose differenti mentre ascolto la nostra musica, cosa che non accade alle altre persone. È una sensazione strana. Credo sia un disco da ascoltare da soli, a volume alto e senza guardare uno schermo o fare altro. Le prime due volte che l’ho risentito nella sua interezza, ma anche ora, alla fine dell’ultimo brano mi sono ritrovato fermo con la bocca aperta. Ho solo espirato.

Manes - credits Snorre Hovdal
Manes – credits Snorre Hovdal

La mia esperienza personale è stata quella di provare le sensazioni che si percepiscono dopo un lutto: pensi con il sorriso alle esperienze che hai condiviso con chi se ne è andato, ma sei comunque triste per la perdita. Credo sia un aspetto che sta scomparendo nella società moderna, parlo di un rapporto intimo e personale con il lutto e con l’affrontare i cambiamenti che porta nella vita. Condividi questa impressione?

Assolutamente sì. Direi che hai detto abbastanza. Ma direi che questo vale anche per il concederti tempo ad ascoltare la musica senza lasciarla come sottofondo mentre fai altro, magari correre o partecipare a un afterparty o cose simili. La buona musica (e parlo in generale, non dei Manes) merita un certo grado di immersione. Non parlo di quella legata al semplice intrattenimento, come i Tankard, probabilmente, o merda tipo Maroon 5 o simile, ma la musica che vuole trasportati in qualche luogo speciale.

Avete due ospiti speciali a bordo, Ana Carolina Ojeda e Anna Murphy, ti va di presentarle ai nostri lettori e raccontarci come vi siete incontrati e come sono andate le cose?

Anna Murphy viene dalla Svizzera e in passato ha fatto parte della band “jumpy folky” Eluveitie, mentre ora suona con i Cellar Darling. È una fan dei Manes da tempo e ha cominciato a collaborare con Skei in un progetto chiamato Lethe. Così la abbiamo incontrata anche noi e si è dimostrata una persona davvero interessante e con una mente aperta per quanto riguarda la musica. Da lì è accaduto tutto in modo molto naturale: volevamo sperimentare di più con le vocals e non avevamo ospitato voci femminili in modo importante nei dischi passati, così le abbiamo chiesto di entrarci e ha acconsentito. Ha partecipato a due o tre dei brani e ha mixato tutto l’album. È stato un piacere.
Ana viene dal Cile e canta in una band funeral doom chiamata Mourning Sun. Era in contatto con Rune da un po’ e ha partecipato come spettatrice al Blastfest a Bergen quando ci abbiamo suonato nel 2016. Così ci siamo incontrati e ci siamo trovati molto bene insieme. Come con Anna, da lì in poi è accaduto tutto molto naturalmente. Ci ha raggiunto in studio in Norvegia per una sessione durante la quale abbiamo suonato vari brani. In seguito è tornata e ha cantato in alcune canzoni. Sia Anna che Ana hanno saputo aggiungere qualcosa di importante alla musica, quindi direi che ha funzionato bene.

Non si può non parlare dell’interessante artwork e del lavoro di Ashkan Honarvar, mi riferisco anche alle foto della band che ha creato. C’è una storia dietro questa collaborazione e l’intero aspetto visuale del disco?

Ashkan non è il tipico designer. Non fa molte copertine o cose del genere, credo sia più vicino al concetto di “fine artist” come si suol dire, con mostre in giro per il mondo etc. Sia la copertina, in tutta la sua gloria, sia le affascinanti foto sono frutto della sua visione. Abbiamo lavorato con lui anche per Be All End All e ci piace molto il suo approccio, i suoi complessi strati di significato e comprensione, e crediamo che questa volta con il suo lavoro per Slow Motion Death Sequence si sia davvero superato. Spero che la gente continui a comprare i dischi in formato fisico, perché l’intero aspetto grafico aggiunge una nuova dimensione all’album. Non è una strategia di marketing, vogliamo solo che la gente lo possa vedere.

Parteciperete a degli eventi selezionati per promuovere il disco? So che i Manes non sono il tipico gruppo che va in tour quando esce qualcosa di nuovo.

Nessun tour, infatti, ma stiamo cominciando a provare come alcuni dei brani possano riuscire dal vivo. Probabilmente faremo uno o due concerti il prossimo anno, ma vedremo cosa succede e se le persone sono interessate. Deve essere comunque qualcosa di eccitante, così da ritenere che ne valga la pena. Non ci piace ripeterci. Sono passati due anni e mezzo dall’ultima volta che abbiamo suonato live, per cui sarebbe divertente fare qualcosa.

Grazie mille per il tuo tempo, a te le conclusioni di questa chiacchierata, abbiamo dimenticato qualcosa?

Grazie a te, Michele! Non mi viene nulla di interessante da aggiungere. Catch you on the flippety flop.