Man, Drum, Machine: Martin Brandlmayr (Radian, Trapist, Polwechsel e molto altro)

Martin Brandlmayr, foto di Maria Ziegelboeck
Martin Brandlmayr, foto di Maria Ziegelboeck

Ho visto i Radian un paio di volte dal vivo: la prima, senza averli mai sentiti nominare prima, nel marzo del 2005 al vecchio Tpo di Bologna, in apertura agli Slint. Se la band per cui tutti eravamo venuti riuscì sì a emozionarci, ma suonò tutto sommato calligrafica e un po’ impacciata, loro semplicemente spazzarono via tutto, con un suono gelido, calcolato al millesimo, denso e sottile, un macigno lieve e potentissimo. Da lì fu ovvio approfondire la loro discografia, che per chi scrive in Rec.Extern (Thrill Jockey, 2002) e Juxtaposition (stessa etichetta, 2004) ha dei picchi assoluti, ma che comunque è sempre suonata del tutto personale (curiosa e inaspettata la loro collaborazione con Howe Gelb dei Giant Sand del 2014: Radian Verses Howe Gelb) e a fuoco. Ulteriore conferma del loro ottimo stato di forma è stato il live visto al festival Ai Confini Tra Sardegna E Jazz della scorsa estate, dove sono stati tra i migliori. Motore e anima della band è senz’altro il batterista Martin Brandlmayr, capace di portare un groove inesorabile, ambiguo, ficcante, che integra elementi acustici ed elettronici in un ibrido che rapisce mente e corpo. Era dunque il caso di fare una chiacchierata con lui, in attesa del nuovo Radian che dovrebbe uscire l’anno prossimo.

Qual è il tuo primo ricordo musicale?

Martin Brandlmayr: Affonda nell’infanzia ed è duplice: mio padre che suona il violino, mia madre il pianoforte; c’era sempre molta musica da camera a casa nostra. Veniva un quartetto una volta al mese, a suonare sempre una fuga tratta da “L’arte della fuga” di J.S.Bach. Ricordo che da bambino ero già affascinato dal rumore che l’arco fa quando scivola sulle corde del violino,e mi colpiva il respiro di mio padre che risuonava nel corpo del violino. Ero più interessato a quelle parti rumorose del suono rispetto agli effettivi aspetti melodici e tonali della musica.

Come e quando hai iniziato a suonare la batteria? Chi erano i tuoi  primi eroi?

Ho cominciato suonando il violoncello, dai cinque ai quattordici anni, poi mi sono fermato e sono passato alla batteria. Avevo già iniziato attorno ai dieci anni a suonare la batteria su vecchie scatole e lattine, avendo una “band” con mio fratello Peter che stava usando il suo violino come chitarra: l’idea, grezza e istintiva, era di sfruttare al meglio ciò che era disponibile. Dopo alcuni anni passati a suonare la batteria ho perso dimestichezza e intonazione con il violoncello; con la batteria di solito, quando si suona con le bacchette, si percuotono piatti e tamburi, mentre tutto il resto (a meno di non utilizzare le cosiddette extended techniques) non può essere modellato veramente. Così ho pensato di integrare i modi di suonare il violoncello nel mio approccio alla batteria. Invece di piegare le corde, grattarle e strisciare, ho capito che potevo fare la stessa cosa sul mio drum set, utilizzando ogni tipo di bacchette e spazzole: si trattava semplicemente di iniziare a esplorare il suono per davvero. Un po’ più tardi, poi, ho iniziato ad ascoltare e studiare molta musica contemporanea come Iannis Xenakis, Morton  Feldman, Gérard Grisey e John Cage.

La musica dei Radian al mio orecchio suona come una miscela speciale di frozen groove, dub del Polo Nord e Ghost Rock, basata su di un calibratissimo equilibrio tra controllo e tensione. Come costruite i pezzi? C’è sempre un ritmo all’inizio a dettare le regole?

A volte c’è un ritmo, in altri frangenti parte tutto da un sample. Di solito la scintilla scocca con un piccolo frammento e da quello la musica cresce come un organismo; è come essere al centro di una rete di connessioni tra suoni che sono collegati in un certo modo. Spesso la musica cresce attraverso un processo di cambiamento: i suoni sono manipolati attraverso l’elaborazione, l’imitazione e le variazioni e ogni volta ne vengono sviluppati di nuovi, come se davvero si trattasse di un procedimento di crescita ed evoluzione biologica.

Avete inciso sette dischi in più di vent’anni. Allora è davvero come diceva Cage: “Non c’è niente da dire e lo sto dicendo”?

L’intero “processo” di un album dei Radian richiede molto tempo perché comporta un lavoro molto dettagliato. Noi siamo costantemente all’opera su nuovi pezzi; in questo momento, ad esempio, stiamo facendo il nostro nuovo album che, si spera, sarà fuori nel 2020.

Dimmi qualcosa su Trapist, Polwechsel e Autistic Daughters. Progetti ancora attivi? Differenze e somiglianze con Radian?

Trapist e Polwechsel sono entrambi ancora attivi. Con Trapist suoniamo molto raramente, ma quando lo facciamo ci divertiamo molto. Potremmo registrare nuovo materiale quest’anno con Trapist. Polwechsel è costantemente al lavoro. Proprio ora abbiamo fatto un progetto con il compositore austriaco Klaus Lang. C’è un album quasi finito e dovrebbe essere pubblicato entro quest’anno. Gli Autistic Daughters non sono più attivi da quasi dieci anni. Ma chi lo sa? Mai dire mai. Trapist e Polwechsel sono entrambi molto legati alle forme musicali libere: Polwechsel si muove nel campo della tensione tra struttura e improvvisazione, mentre Trapist è musica completamente improvvisata, nonostante i dischi abbiano una certa quantità di post-produzione e montaggio. Nella dimensione live Trapist non riproducono mai brani precostituiti, ma ovviamente abbiamo le nostre ricette e strategie su come interagire insieme: si tratta di una sintonia che si è sviluppata ed è cambiata nel corso degli anni. Semplicemente, il più delle volte è un processo che semplicemente ha luogo e questo non è influenzato da alcun tipo di costruzione o accordi verbali. Radian invece ha a che fare con l’improvvisazione solo in studio. Ma di solito la band non improvvisa insieme come è solita fare una band in studio. Lavoriamo molto con le sovraincisioni, ed è lì soprattutto che improvvisiamo: da una session di dieci minuti forse solo un campione di appena cinque secondi viene usato come nuovo materiale per un pezzo, e alla fine comunque tutti i pezzi sono costruiti con estrema cura ed attenzione ad ogni dettaglio.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Ci stiamo concentrando, come ti dicevo, sul nuovo album dei Radian e poi sto rielaborando un’opera per bambini che ho composto nel 2016 e che sarà eseguita dal vivo di nuovo quest’autunno. Inoltre usciranno un disco dal vivo dei Disquiet (quartetto con Christof Kurzmann, Sofia Jernberg e Joe Williamson) ed un nuovo lavoro di Kapital Band 1 (dove con me c’è Nicholas Bussman, che suona un pianoforte che viene filtrato e controllato dal computer).

Falco, Kruder e Dorfmeister, ovviamente Mozart, la scena di Editions Mego. Mi manca qualcosa di interessante?

I Kompost 3 sono una grande band di Vienna. Adoro la loro musica, in particolare dal vivo.

Cosa stai ascoltando in questo momento?

Ascolto molto Miles Davis dal periodo Bitches Brew/Fillmore East. Ho riscoperto di recente See Trough/Mosquito dei Necks, mentre mi sembra decisamente interessante il nuovo dei Low! Nello stereo girano anche To Pimp A Butterlfy di Kendrick Lamar, The Mozart Tapes di Friedrich Gulda e il disco della nuova band di Ken Vandermark, Marker.