MAISTAH APHRICA, Maistah Aphrica

Sei pezzi per un’ora abbondante di ottima musica, fresca e divertente, evoluta, ballabile ma non banale, zuppa di groove. Questo è quanto troviamo nel disco d’esordio dell’ottetto friulano Maistah Aphrica, nelle cui file milita – tra gli altri – Giorgio Pacorig, pianista (qui a synth e device vari) già visto all’opera nel bellissimo progetto commissionato da Angelica Perfavore Sing (attendiamo il seguito!), nel duo con l’istrionico Vincenzo Vasi dove rivoltava l’Italia delle canzoni e delle canzonette con estro strabordante, oppure in quartetto (quando vivevo a Zurigo, guarda tu i casi della vita) con Stefano Giust di Setola di Maiale. Ma ognuno dei musicisti della band è impegnato in svariati altri luoghi musicali, ed è proprio un luogo quello che creano la sezione fiati a tre (tromba, trombone e sax alto), le tastiere e l’elettronica e la sezione ritmica rafforzata dalle percussioni. Siamo in un’Africa immaginata da – come dichiarano loro stessi – chi in Africa non è mai stato e quindi in un continente fisico ma anche mentale. Un posto dove possono incontrarsi l’ethiojazz massiccio della lunga (12 minuti, ma non sembra, anzi, ne vorresti ancora) “Maisagah-Maistah”, che ipotizza un incontro tra le armonie tipiche di Mulatu Astatke e il groove solido della Budos Band, per poi aprirsi subito su  spericolate e delicate cadenze dubfunk che virano verso l’high life dell’Africa occidentale e prendere una sbandata psichedelica. Bisognerebbe fare la radiocronaca, quasi fosse una partita di pallone, di un pezzo del genere, che apre parentesi su parentesi pur non risultando dispersivo o prolisso, un perfetto biglietto di presentazione per un disco che a ogni ascolto cresce e convince, e che speriamo di poter testare presto dal vivo. Una felice attitudine cosmica, non dissimile da quella degli Heliocentrics, è quella che anima questa tribù di friulafricani, musicisti sapienti e menti aperte, capaci di spaziare all’interno dello stesso episodio tra sapori anche molto diversi tra loro, ma che non cozzano mai, creando piuttosto un ibrido ben calibrato.  Il tiro di “No Xe Babah” sarebbe più classico e riconoscibile rispetto ad altro, ma le intrusioni dell’elettronica, puntuale e straniante, e gli effetti dub sui fiati danno all’insieme un afflato peculiare, che funge da rampa di lancio per un numero che non avrebbe affatto sfigurato sulla mitologica compilation di jazz psichico “Universal Sounds Of America”. Il ritmo rotolante e sornione di “Ochaj’n Mann” di nuovo ci riporta ad Addis Abeba, poi parte praticamente un altro brano e siamo quasi in territori di chicha amazzonica e musica creola, con tastiere squisitamente 60’s e obbligati di fiati che farebbero muovere il piedino pure a un morto. Ascoltatori a 360°, ci scommetto, oltre che strumentisti abili e senza preconcetti, i nostri esploratori del continente madre riescono a coniugare incalzanti groove funk con fughe cosmiche (“Forah”, la quarta traccia), saporite fragranze Vampi Soul e ampi panorami modali come li avrebbero potuti dipingere Sun Ra o Pharoah Sanders. “Negativoh​-​Bolombia​-​Kattungah De Balombo” è un’altra lunga suite cadenzata da un basso notturno e lanciata in orbita da dialoghi liberi di fiati e rimbrotti di elettronica dal sapore analogico sempre azzeccatissimi: poi la materia sonora si rapprende e si torna all’origine di tutto, al groove, in un’atmosfera febbrile e festaiola, da party music sulle rive di un fiume che non c’è.

Una conversazione per sezione fiati apre invece “Sago Sego Sago”, l’ultima traccia, poi entrano a disturbare e a straniare felicemente il tutto segnali morse di synth, ma il sacro totem del ritmo non vacilla, prosegue imperterrito e frenetico, come una versione più godereccia degli Him di Doug Scharin (ve li ricordate?) o una versione molto più  nera e compiutamente devota al dio della pulsazione della musica dei The Sorts (Contemporary Music uscì su Slowdime nel lontano 1999).

Alla fine del disco arriviamo storditi come dopo una sbornia, ma non sentiamo effetti collaterali, siamo in una cantina di Cartagena a ballare cumbia, in una discoteca di Lagos, siamo a Chicago in un locale fumoso a smazzarci dell’hard bop, su Saturno a un rave con Sun Ra come dj, nel sud degli States a sudare funk dalla nostra camicia attillata, al battesimo del figlio albino di Ebo Taylor oppure ad un party a New York coi Liquid Liquid: non abbiamo capito dove siamo alla fine, ma va benissimo così, space is the place e l’Africa è un luogo della mente, e questo disco rende un sincero e bellissimo omaggio alla sua  nera eppure luminosissima maestà. Il disco è autoprodotto, il cd è un delizioso manufatto  in copie numerate, procuratevelo e se capitano dalle vostre parti in concerto, non fate la stupidaggine di perderli.