Live Arts Week III: venerdì 11 aprile 2014

Mette Edvardsen

Bologna, MAMbo.

Siamo ormai nel pieno del festival: il quarto giorno propone un running order più lungo e con ulteriori sorprese. Le novità si fanno vedere fin dal timbro: vengo marchiato con uno dei misteriosi simboli simil-aztechi degli MSHR, che hanno in serbo per tutti un gran rituale.

Un’altra rivelazione, appena entrato, è uno strano ronzio proveniente dal corridoio dove Canedicoda continua la sua esposizione di video di YouTube, dal titolo “Processo al Mochi / The Size of a Green Pea”. Questo bizzarro rumore è generato da nientepopodimeno che SIXES aka Ryan Jencks, un nome fuori programma, trasportato da Giovanni Donadini da Milano – dove si trovava in tour – qui a Bologna per una data aggiuntiva, grazie alla quale i video di Canedicoda si arricchiscono di ronzanti note minimali per la prima mezz’ora di serata. Il set non viene percepito come un vero live, e pochi si fermano ad ascoltare, anche perché il timbro quasi costante non incuriosisce più di tanto, nonostante crei un’interessante accoppiata con le assurdità del web. Il tema di oggi sono la meccanica applicata e le macchine utilizzate dall’uomo per gli scopi più disparati. Come al solito ci si può accomodare sugli strambi sedili in legno realizzati da Canedicoda, il quale ci racconta qualche aneddoto sul progetto: “In realtà quella che riesco ad esporre è solo una fetta della raccolta, la mia collezione vanta più di 1300 pezzi, ma arrivato qui mi sono dovuto confrontare con molti limiti. I più significativi sono stati quelli del tempo e quelli legati ai formati dei video. Infatti ci sono state complicazioni nel convertire i file per i vari lettori dvd e per i proiettori, poi durante le altre performance le mie proiezioni vengono spente, di conseguenza direi che riesco a mostrare un centinaio di video a serata, neanche la metà dell’intera libreria”.

Poco dopo le 22 gli organizzatori del Live Arts Week vengono a chiamare chi si era fermato ai video per portarlo nel salone principale, dove sta per cominciare la performance di Mette Edvardsen. La stanza è spoglia, l’artista norvegese-belga è scalza, ma le basterà solo la voce, oltre a un vago utilizzo del corpo, per trasmetterci il messaggio chiave del suo pensiero. Il punto di partenza è il linguaggio, e ciò che si può identificare attraverso esso. Non mi soffermo ora a parlare di Kripke o Wittgenstein, ma gli studiosi di filosofia avranno, forse, qui ritrovato alcuni spunti di chi del linguaggio ha fatto la propria materia di studi. Dopo l’identificazione di un oggetto tramite la parola ad esso associata (tema trattato nella sua precedente performance “Black”), in “No Title” è la negazione di quell’oggetto la protagonista. Accostando alla frase “… is gone” una serie di parole, Edvardsen comincia a cancellare l’universo, facendoci chiedere che cosa potrebbe sostituire i concetti che se ne sono andati o, peggio ancora, cosa sarebbe la vita senza di essi, che cosa resterebbe. Qual è la vera importanza di una parola o della materia ad essa associata? Un gesso per disegnare una linea per terra e degli occhi finti la aiutano nello sviluppo di questo discorso, che, esposto in modo esaustivo, lascia tutti molto sorpresi e pensierosi.

Daniel Löwenbrück - Doreen Kutzke

Non è ancora arrivato il mio turno per entrare nella “Waiting Room” assemblata da Daniel Löwenbrück, ma nel frattempo è lui ad uscire dalla stanza per una rappresentazione che lo vede in duo con la sua compagna. L’accoppiata Daniel Löwenbrück/Doreen Kutzke risulta vincente, finora forse la migliore di tutto il festival, anche se è impossibile stilare una classifica e non è mia intenzione farlo. In ogni caso ci si aspetta molto da un membro di uno dei gruppi di arte performativa più importanti ed estremi del settore, come è il Schimpfluch-Gruppe. È vero che in Italia spesso gli estremismi artistici tendono a subire una lieve calmata, come si è visto, tra gli altri, per il live di Runzelstirn & Gurgelstøck a Ravenna qualche anno fa, ma questo non intacca la qualità delle proposte, che rimangono comunque di un ottimo livello. Stasera sarà un contrasto molto forte a farci sobbalzare, quello fra lo yodel, di cui la Kutzke è maestra, e il noise, componente fondamentale nei lavori del Schimpfluch-Gruppe e di cui Löwenbrück è un “importante produttore”. Il buio travolge tutta la stanza, in esso solo un rumore di sedia trascinata e un campanaccio da bestiame ci fanno cercare qualcosa pur in assenza di luce, mentre Löwenbrück, davanti a un microfono, è illuminato da una fioca luce azzurra, con la mano sinistra tesa che genera un drone compatto e penetrante. Saranno l’arrivo della compagna e la luce che getterà su Daniel il generatore di un harsh noise violentissimo a immobilizzarmi al terreno. L’insieme è spaventoso, ma la parte più inquietante inizia con l’aggiunta vocale della Kutzke, un candido intono angelico, che si muove sopra questi rumori viscerali e oscuri. Il richiamo a un contesto doloroso e horror è comune, e lo sposalizio terminerà solo quando il pubblico avrà abbastanza brividi.

MSHR

Il timbro all’entrata trova il suo corrispettivo scenico negli MSHR, duo di Portland che sembra dialogare con un altro live set dell’anno scorso, quello dei Lune. Tra plasticosi glifi kitsch e luci di tutti i colori, qui si genera psichedelia nella sua concezione più acida. Il concerto è allo stesso tempo uno show creato da più sculture elettroniche, diavolerie auto-costruite per ottenere sound mai del tutto controllabili. La parte visiva è data da un tappeto sul quale vengono disposti in disordine mille lampadine e distorsori, con Brenna Murphy, una dei due MSHR, che alza delle plastiche fluo e ci riflette un laser che irraggia il soffitto. La componente audio è invece sviluppata sulla base di sensori di due tipi: alcuni, quando illuminati dalle lampadine, producono rumori che cambiano timbro a seconda del colore delle luci, mentre l’altro tipo di sensore controlla a sua volta le lampadine stesse: più alto il suono, più intensa l’illuminazione. Tale scambio di energie dà luogo – ovviamente – a continui feedback. Questi ultimi costituiscono l’essenza del live, il cui continuo crescendo mi ipnotizza, anche grazie a delle strobo che non smettono mai di imprimere immagini istantanee sulla retina. Ne esco confuso e felicemente stordito.

Boccioletti

In parallelo con la serata di ieri, tocca all’elettronica più sintetica il compito di chiudere. Enrico Boccioletti porta al Live Arts Week “#AERIAL: The Floating Body in a Distraction Economy” e ci accompagna in un viaggio verso l’immaginario dei mondi “What If…”. Due enormi schermi da proiezione guideranno la vista, mentre l’elettronica da laptop e synth farà accomodare le nostre orecchie su gentili suoni astrali. Le immagini di aerei futuristici, GTA San Andreas e frasi alla Holzer ubriacano lo spazio e ne smussano gli angoli. La domanda ricorrente è “cosa sarebbe successo se…?” e il limbo creato da un tale interrogativo viene immerso in una musica che rende l’idea di caduta libera verso il nulla. Me ne vado molto soddisfatto dell’intero festival fino ad oggi.

Grazie a Massimiliano Donati per le foto.