LIARS, The Apple Drop

Da un po’ di tempo, parlare dei Liars non fa più figo. Super influente e “giusta” negli anni Zero art-noisey, in primis con lo stregonesco They Were Wrong, So We Drowned e l’ossessivo-ritmico Drum’s Not Dead, l’(ex) band newyorkese ha continuato a sfornare dischi validi, inclusi quello più radioheadiano del lotto (WIXIW) e quelli più propriamente ludici (la “melodica” raccolta di canzoni omonima o il ballabile Mess, a un passo dal kitsch), sino a quando in sostanza il leader Angus Andrew non è rimasto solo soletto, dopo l’abbandono di Julian Gross nel 2014 e di Aaron Hemphill nel 2017, e ha trasformato la premiata ditta nel suo vascello in proprio (accadeva con TFCF e il relativo sequel Titles With The Word Fountain, non brutti ma di certo un po’ spaesati e di certo prescindibili).

Dovendo fornire una coordinata da seguire all’interno di un percorso inquieto per natura, The Apple Drop, decimo album al solito pubblicato da Mute, si potrebbe ricollegare alle sonorità e agli umori sinistri dell’eccellente Sisterworld, risalente al 2010. È un album con una forte coerenza interna, eppure che vive di scatti – sia di scrittura sia di arrangiamento – che caratterizzano ciascuno degli undici pezzi in scaletta. Andrew è una sorta di Adamo che scende nelle profondità di una personale caverna di Platone: ne esce con tante idee, con la versione ideale di se stesso oppure dei Liars A.D. 2021. È lui a spiegarlo molto bene: Nel corso della storia dei Liars ho cercato costantemente di sviluppare nuovi metodi per creare musica. In ogni progetto ho in pratica abbandonato gli iter precedenti e ho cercato invece di imparare modalità differenti di comporre e produrre brani. Se prima percepivo questo viaggio come una linea retta, mi rendo sempre più conto che la mia traiettoria è più simile a una spirale. Man mano che vengono generate nuove idee, quelle più vecchie assumono un nuovo significato e si evolvono ulteriormente. 

Realtà e proiezioni illusorie, darkness e sfere luminose, elementi analogici e digitali si confondono in una spirale verso il basso, verso l’alto. Ad aiutare Andrew a elaborare il materiale ci sono stavolta collaboratori scelti ad hoc, con l’obiettivo di dar vita a qualcosa di più grande. Ci sono dunque il batterista avant-jazz Laurence Pike, il polistrumentista Cameron Deyell e Mary Pearson Andrew a prestare mano con le parole. Lo slancio verso il movimento e la rivoluzione erano temi che volevo esplorare, per restituire all’ascoltatore questo senso di trasformazione e farlo sentire come se fosse trasportato attraverso una cavità spaziotemporale. “The Start” parte non a caso allontanandosi dalla partenza, con imperiosità e pathos in linea con la successiva “Slow And Turn Inward”, con archi, tasti e soluzioni vocali configurati in interessante maniera cinematografica.

“Sekwar” punta in direzione più scura ed elettronica, più post-punk, più rabbiosa: nel claustrofobico video del singolo, Mr. Andrew si dà alla speleologia come se recitasse in The Descent. In quello di “Big Appetite”, una ballad con tanto di iniziale giro chitarristico da manuale alt-rock, ciononostante straniante, il delirio si sposta nello spazio, dove è ambientato anche il terrorizzante clip sci-fi della mesta “From What The Never Was”. La salmodiante “Star Search” sfocia in gospel horror, mentre la cacofonica “My Pulse To Ponder” è horror sin dal refrain (I cut your throat!). “Leisure War” fonde tribalismo e puntine IDM, “King Of The Crooks” non dispiacerebbe né a Damon Albarn né a Beck, l’allucinato rituale “Acid Crop” invita solennemente a lasciar cadere la mela che dà titolo al tutto, “New Planets New Undoings” è definitiva chiusura o ripartenza in direzione di altri mondi. In breve, The Apple Drop è un gran bell’album, probabilmente il migliore dei Liars da quasi un decennio a questa parte. Basterà?