Le radio-musiche impossibili di Alessandro Bosetti

Frequenze e note sparse, ipotesi sonore di un artista poliglotta.

Si accende il microfono, parte la registrazione. Il diario di bordo prende forma.

Fare un riassunto il più possibile esaustivo della carriera dell’artista milanese è impresa ardua. Quando si legge delle sue esperienze in giro per il mondo viene subito da pensare che ci troviamo di fronte a un soggetto che non ama affatto stare fermo o fossilizzarsi su di una sola idea musicale, anzi, viene voglia di capire perché Bosetti, come pochi altri, si sia messo in testa di operare in complessi ambiti multi-disciplinari. Personalmente mi sono imbattuto nel suo percorso per via di alcune letture su mensili specializzati e di qualche composizione ascoltata in rete, poca cosa se si tiene conto della già citata mole di pubblicazioni, idee e appunti sparsi che Alessandro ha lasciato come testimonianze fino ad ora.

A pensarci bene, nascere è come accendere un ideale registratore, utile per testimoniare il movimento di un corpo che racchiude idee e azioni. Un punto di partenza, di registrazione dunque, va messo, si potrebbe incominciare banalmente proprio dalla nascita: milanese doc, ha da poco superato i quarant’anni, essendo nato nel 1973. Dopo aver vissuto a Berlino, Parigi, New York, Londra, da qualche tempo ha deciso di stabilirsi a Marsiglia, scelta non casuale forse, data la nomea che quest’ultima ha di città aperta e portuale, quindi a suo modo di frontiera, ideale punto d’incontro tra culture artistiche e giovanili come pochi altri, tanto che agli italiani piace definirla la “Napoli francese”. Banali considerazioni a parte, Bosetti probabilmente la usa come appoggio per poi potersi spostare con comodità per il globo. Chiaramente non sappiamo quanto riuscirà a star fermo in Francia.

Rapido excursus tra le numerose collaborazioni e le uscite discografiche

Le prime registrazioni risalgono alla metà degli anni Novanta. Bosetti pubblica già nel 1995 Re D’Ottavi per la torinese C.M.C. Records, Melgun (1997) per la Erosha, che ha in catalogo il bolognese d’adozione Paolo Angeli, e la collaborazione con Peter Kowald, Postura, per Fringes Recordings, 1999, l’etichetta di Giuseppe Ielasi.

Nel decennio successivo l’attività si intensifica quasi a dismisura, è possibile contare una decina di pubblicazioni, tra musiche – le più disparate – e registrazioni radiofoniche, vera peculiarità del suo discorso artistico. Negli ultimi sette anni Bosetti ha continuato a procedere speditamente, tra nuove sessioni in studio, residenze e collaborazioni sempre più prestigiose, con Tony Buck e Chris Abrahams dei Necks, Amelia Cuni, Phil Niblock, Bhob Rainey… Spicca la predilezione per gli artisti provenienti dal Giappone: Otomo Yoshihide, Taku Unami, Taku Sugimoto.

Fare selezione, approfondire…

Naturale misurarsi con quelli che sono i capisaldi della propria cultura di appartenenza. In Italia, oltre alla “Divina Commedia”, ai “Promessi Sposi” e ai componimenti di Giacomo Leopardi, c’è un altro testo fondamentale che tutti abbiamo letto a scuola, anche odiato come pochi forse… “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” di Carlo Collodi. Prima o poi si deve fare i conti con un’opera che ancora oggi risulta parecchio fantasiosa e che colpisce per i risvolti inquietanti, d’altronde già Carmelo Bene ne fece una rilettura teatrale negli anni Sessanta. Bosetti prova in Pinocchio (Nat Nat 04, 2002) a inserirsi in un tipo di reinterpretazione che enfatizza l’afflato quasi agghiacciante del testo originale, campionando voci e mettendo a punto un radio-dramma per suoni e testimonianze, e il risultato somiglia a un esperimento a cuore aperto sul corpo del romanzo dell’autore toscano. Spiccano “Essere O Raccontare”, un cut up di voci fuori campo che si accavallano in mezzo a disturbi microfonici – un esperimento tout court – e la strana ballata “Gli Ottavanti”, che campiona sempre le voci dal chiaro accento toscano che raccontano le peripezie del burattino. La corale “La Menzogna” pare un sunto funereo (nella musica) e al vetriolo (nella parte raccontata) della favola. Infine, se “I Piedi” è una marcetta industrial, “Fate” pare un missaggio volutamente scomposto delle solite voci protagoniste.

African Feedback (Errantbodies, Ground Fault, 2007)

Bosetti nell’inverno del 2004 va in Africa, al confine tra il Mali e il Burkina Faso, a incontrare le popolazioni Dogon e Mossi. Fa ascoltare a chi incontra sul suo cammino una serie di registrazioni, sue e non (da Parmegiani a Steve Lacy, da Henri Chopin a John Cage, Harry Partch, Salvatore Sciarrino, Incapacitants…), chiedendogli cosa ne pensa (nel libriccino che contiene il cd ci sono le trascrizioni dei vari dialoghi). Il risultato finale assomiglia a una sorta di orchestrazione vocale che diventa quasi dolorosa, intima e gospel nell’animo. Le diverse reazioni delle persone, i loro abbozzi vocali, le loro voci processate, concorrono a questa sorta di processione elettroacustica intrisa di malinconia, perciò bella e naturale come poche. African Feedback non è solo esotismo, ma vero e proprio omaggio-studio che coinvolge altri settori delle società più distanti ed emarginate dall’Occidente, che qui trovano naturale diritto a esperire, raccontare, cantare, idealizzare una o più musiche, come a riportarle alla naturalità delle fonti sonore, senza troppe mediazioni tecnologiche. Si odono voci di mercati, grugniti, la voce dello stesso Bosetti che esorta a continuare a parlare, quasi a ricordare certi esperimenti in forma (più corale) di viaggio che a suo tempo fece un certo Alan Lomax. Bosetti, però, nelle sue note tiene a specificare che il suo non è e non vuole essere un atteggiamento accostabile a quello del classico antropologo.

Spicca poi l’accoppiata di lavori con due elementi degli australiani Necks. Quasi inutile presentare Chris Abrahams e Tony Buck, musicisti dall’eccezionale tasso di rigorosità compositiva, che grazie ai numerosi album pubblicati sono riusciti a creare una delle formule più sfuggenti della improv odierna, sempre con quella tipica curiosità che li contraddistingue a partire dai loro esordi di fine Ottanta. In We Who Had Left (Mikroton, 2012) i fraseggi di piano di Abrahams si intersecano alla perfezione con i field recordings del milanese sin dall’apertura di “We Also Dress Today”, anche se, ad esempio in “We Cannot Imagine” Bosetti sembra interpretare la parte drammatica di un musical funereo, addirittura riesce a cantare – oltre che a recitare come di solito capita di ascoltare nei suoi lavori – mentre lo stream of consciousness di “When They Are Overhead” è proprio quel che promette, una fuga dai classici binari della composizione per tramite di una lunga suite di stampo minimalista. In A Heart That Responds From Schooling (Unsounds, 2015) è invece la forma canzone a farla da padrone, c’è addirittura una rendition di “Bridges”, scritta da Fernando Brant e Milton Nascimento (tratta da Courage, album storico del compositore brasiliano, uscito nel 1969), mentre “Eye” è una suite costellata di ideali concrezioni rumoriste polverizzate, e qui sembra evidente l’apporto di Abrahams. “Greenhouse” prosegue in maniera meno forzata nella stessa direzione, in questo caso l’ascolto si fa meno difficile. In sostanza si tratta di un album più eterogeneo rispetto al precedente.

Con Renard, uscito nel 2013 in formato lp per le francesi Les Presses Du Réel e FRAC Franche-Comté, Bosetti continua il percorso attraverso una sorta di musica da camera, ma in forma vagamente pop, volutamente destrutturata. In “Des Réponses” spicca il clarinetto dello svizzero Laurent Bruttin, si fa notare anche la più melodica “Nourriture”, ripresa nell’album con Abrahams A Heart That Responds From Schooling, finché non si giunge all’ascolto della sola voce nella conclusiva “La Vieille Dame”. Al mastering l’amico Giuseppe Ielasi (Bowindo e Senufo Editions).

C’è poi il dvd Autumnal Sisters (The Manual, 2015), sorta di parziale compendio video delle sue performance svoltesi in Corea del Sud, a Seoul nell’ottobre del 2013. In totale sono sette filmati: si passa dai sei minuti circa di “Chair” agli undici e passa della complessa struttura di “Shrink”. Da segnalare pure i fantasmi-intonarumori della quasi futuristica “Age”. Gli ospiti qui sono Okkyung Lee, Taeyong Kim e Orolo. 

Stille Post. Radio Works: 2003 – 2011 (Monotype, 2016)

Box contenente quattro cd, Stille Post. Radio Works: 2003 – 2011 è una sorta di necessario compendio per racchiudere il meglio della corposa produzione radiofonica di Alessandro. Il primo, intitolato Arcoparlante, contiene registrazioni in forma di frammenti, Bosetti spiega che …during this event, almost incomprehensible radio messages were transmitted and transcribed multiple times until they mutated into abstract, musical, mysterious and sometimes surprisingly material. This process was made possible through the active participation of listeners all over the world. Arcoparlante is an electromagnetic feast of misunderstanding on a grand scale. Il tutto si apre e si chiude pure con una sigla, proprio come si fa nelle trasmissioni radio.

La tendenza a considerare la partecipazione di più soggetti, di coinvolgerli direttamente nel suoi lavori, viene amplificata e sublimata in Gesualdo Da Venosa, cd 2, dove Bosetti imbastisce una sinfonia per voci e musiche storte – ispirate dal quinto e sesto libro dei madrigali – catturate in quella enorme metropoli che è Napoli nel luglio 2007: potete immaginare il dedalo di citazioni e incastri vocali che assolvono al compito di omaggiare il celebre compositore nato nella città di Orazio.

Counterpoint is the perspective and the motor, questa la frase che chiude la presentazione del terzo cd, A Collection Of Smiles. Il contrappunto è quella “area di partitura” che contiene le voci coinvolte in questa parte di progetto, che conferma – se ancora ce ne fosse bisogno – quanto il discorso artistico di Bosetti necessiti di articolati lavori di passaggio, prove, aggiustamenti adatti all’unità del suo intero excursus.

Chiude il box la quarta parte contenente le pièce Campanas e Whistling Republic. La prima è una serie di testimonianze prevalentemente in spagnolo e tedesco, la seconda una collezione di fischi che si fanno per comunicare tra di loro, anche a distanza di chilometri, alcuni abitanti di La Gomera, isola appartenente all’arcipelago de Le Canarie. Bosetti ha potuto registrarle ed elaborarle in un percorso di ascolto proprio grazie a un periodo di residenza.

Plane plane, don’t be insane, take me away from the mundane. Take me back, to the big city, where I am going to sign a treaty. A peace treaty with myself. Please now fasten your seat-belt.

Nel recente Plane/Talea (2016) il discorso diventa ancora più ostico. Qui Bosetti registra e sovrappone le tracce come a creare un’ideale sinfonia di effetti vocali che si rincorrono senza colpo ferire. Sul lato A, ad un certo punto pare di sentire una sinfonia di “sbam!”, “tum!”, “tak!” di memoria futurista, non a caso nel finale il tutto somiglia ad un’orchestra quasi industrial. Sul secondo lato l’insieme si fa se possibile ancora più alieno, il gioco delle manipolazioni risulta più estremo, si va dall’accenno di cori gregoriani in apertura alle sovrapposizioni selvagge della parte centrale. La vicinanza al Demetrio Stratos di Cantare La Voce è più di una sensazione. Questa volta pubblica la milanese Holidays Records.

Trophies – A Family Of Three (Band Photo) 2017

Bosetti è assieme a Kenta Nagai alla chitarra elettrica e, nuovamente, a Tony Buck alla batteria. Trophies è l’ultimo album in ordine di pubblicazione, questa volta c’è il ritorno all’olandese Unsounds, ed è uno studio sui rapporti tra esseri umani in una grande città, sostanziato visivamente dalle foto di Michela Di Savino, che nell’artwork del disco si prendono tutto lo spazio possibile e rappresentano il ritratto – più ritratti per la verità – di quella che è la società di oggi, eterogenea e multi-etnica, va da sé, da un’ottica metropolitana. Da subito colpisce la voglia di suonare dei tre; le registrazioni, pur provenendo da un lungo periodo di raccolta, circa tre anni, paiono l’espressione di una voglia di risultare fluide all’ascolto. Colpisce il suono, live e catturato quasi a forza nel disco. E infatti “Cautiously” ha un’urgenza quasi punk, ma come venata dalla psichedelia; ci pensa “Small Process” a complicare il tutto con una prova anfetaminica tra ritmiche impazzite e cantato ansiogeno. “Attento a non desiderare troppo”, ammonisce invece in “Desiderare”, dove la chitarra del giapponese si fa quasi sintetica e Buck picchia sulle pelli come un jazzista incallito, pezzo alieno, lo avrete capito. “Il mio più grande problema, adesso, è l’Italia, perché la amo e la odio contemporaneamente”, questa l’unica frase, sovrapposta a quella tradotta in inglese, che in “Problem” si appoggia ad una stranissima base quasi tarantolata, tra percussioni impazzite e altre diavolerie sonore che rendono la traccia quasi come una versione 2.0 degli Area.

Arrivati a questo punto siamo certi che Bosetti ci riserverà altre pubblicazioni in futuro. 

L’intervista

Naturale interpellare il diretto interessato, che ringraziamo per la massima disponibilità e per le risposte sempre acute ed esaustive.

Nascere è un po’ come accendere il corpo, dunque il corpo può ricordare una sorta di registratore, il cervello ne è il software. Restando nella metafora, come ti vedi come artista? Quando hai cominciato le tua attività, da dove stavi arrivando e quanta importanza hanno avuto per te le pratiche legate alla registrazione?

Alessandro Bosetti: Arrivavo da qualche pianeta tra jazz sperimentale e le patrie lettere, e come ho sentito dire una volta a Evan Parker, la mia tradizione sta nel giradischi. Il mondo mi si è davvero aperto attraverso le tonnellate di dischi che mi sono passate tra le mani. Sono molto legato alle registrazioni e la parte più consistente del mio lavoro esiste in forma di file audio, per quanto dirlo mi provochi una certa inquietudine. Sono legato a cose che si possano ascoltare tante volte, che come un libro o un paesaggio si possono percorrere in lungo e in largo e ripetutamente. Mi affascina molto l’idea classica di teatro della memoria e la maggior parte dei miei lavori esistono su questo livello, sono densi e si aprono dopo ascolti ripetuti, idealmente andrebbero imparati a memoria. In quel modo non avremmo più bisogno di file audio e saremmo al sicuro da eventuali tempeste solari che minacciano di cancellare tutti gli hard disk del mondo in una folata di vento cosmico.

Altre cose che trovo importanti sono la lingua e l’interazione tra i corpi, sempre per sottolineare l’estrema complessità del corpo umano. Come ti poni tra questi due discorsi? Quanto è importante l’idea che sta alla base di ogni tuo disco o performance?

È una domandona alla quale è quasi impossibile rispondere. L’idea è importantissima ma deve fondersi con l’urgenza, l’appetito, la percezione fisica della direzione di quello che stai facendo, quasi fosse la corrente di un fiume in cui stai nuotando e ti spinge da una parte. Quando tutte queste cose sono chiare, beh, allora ci siamo.

Come e quando decidi che un tuo pensiero musicale possa venire registrato su un supporto fonografico?

Registro molto poco rispetto a quello che registravo anni fa. L’idea di poter “registrare qualcosa” è molto meno affascinante oggi quando tutto viene verbalizzato all’istante. Le mie registrazioni di oggi sono puntuali, premo sul tasto record in momenti molto precisi e circoscritti – magari per arrivarci ci vuole parecchia preparazione, qualsiasi cosa questo significhi. Non riutilizzo mai gli archivi di  una vecchia composizione, tutti i lavori radiofonici ad esempio nascono da una materia sonora esclusiva e separata che una volta finito il lavoro potrei anche distruggere. Questo è vero per quasi la maggioranza delle cose che ho prodotto, eccezion fatta per due progetti che sono ibridi pezzi/strumenti e che si basano su un corpus di samples riproposti costantemente come MaskMirror e Plane/Talea.

Non è un caso, forse, che il recente Plane/Talea sia stato licenziato dalla Holidays Records, che ha in catalogo artisti piuttosto diversi tra loro, uno in particolare può venire associato al tuo lavoro, penso alle “poesie sonore” di Arrigo Lora-Totino. Conoscevi le sue performance?

Una fortuna poter lavorare con Stefano Rossi di Holidays per il primo lp di Plane/Talea. Mi piace molto l’approccio di Stefano, simile a quello di un vignaiolo naturale che fa un numero limitato di bottiglie per poter restare in un’atmosfera di lavoro precisa, rilassata e divertente e non di più. Lui fa lo stesso con la musica. Gli piace, la ascolta, indipendentemente dal genere e dal field of allegiances, soprattutto non ha voglia di parlarne troppo.

Conoscevo Arrigo Lora-Totino e la poesia sonora in generale è stata un’influenza importante, Henri Chopin su tutti, il suo lavoro al limite e le sue antologie, la mia copia della revue OU su Alga Marghen è tutta annotata e così era la mia copia di poesie sonore International, che non trovo più!

Sono stati importanti i lavori di Åke Hodell, Sten Hanson, Bengt Emil Johnson in particolare perché rivendicavano il termine “text-sound composition” che mi è stato utile all’inizio per spiegare la forma ibrida in cui mi muovevo. Da Kurt Schwitters a François Dufrêne, i lettristi e gli italiani come Giulia Niccolai, Adriano Spatola e Corrado Costa, la poesia sonora è una tradizione un po’ fuori dal tempo, una specie di fiume sotterraneo che attraversa moderno, post-moderno e oltre. Mi affascina la connessione tra neue-hörspiel e poesia sonora di Gehrard Rühm, Ernst Jandl, Ferdinand Kriwet. Cito i nomi importanti per me, senza pretese di completezza storica. Tutto sound-writing a statuto speciale. Quindi in breve grande gioia di essere label-mate di mr. Lora-Totino…

Tra residenze, esibizioni, ospitate e traslochi vari avrai certo imparato a recuperare il minimo indispensabile per poterti muovere agilmente nelle varie nazioni dove sei passato. Come hai fatto a restare concentrato sul tuo percorso artistico? Cambiare così spesso location non ti ha mai disorientato? Oppure lo cerchi apposta questo disorientamento?

Ne ho sempre avuto bisogno per poter restare centrato sul mio percorso artistico. Ho sempre amato viaggiare. Andare via dall’Italia nel 2001 è stato necessario. Poi una volta che sei fuori sei sempre un po’ fuori posto e sempre un po’ a casa dappertutto.

Sono molto curioso di sapere come hai fatto a coinvolgere i cittadini di Napoli nella tua performance dedicata a Gesualdo da Venosa, e anche di come ti è venuto in mente, e come sei riuscito, a misurarti col Pinocchio di Collodi…

Molto semplicemente, spiegando con chiarezza quello che volevo. Lo stesso approccio diretto che ho usato in altri lavori con un approccio vagamente antropologico di quel periodo. Vuoi farlo, sì/no. Un po’ era un approccio da micro-trottoir, entravo nei negozi, mi sono anche infilato al Conservatorio di musica e ho incontrato qualche studente in pausa sigaretta. Alcune persone mi hanno aiutato parecchio, in particolare Claudio Catanese che lavora alla Collezione Morra e che saluto, gli è piaciuta l’idea e mi ha fatto conoscere delle persone interessanti.

Pinocchio era un po’ la mia ossessione prima di lasciare l’Italia, quel disco del 2001 riflette un po’ la mia visione di un Paese che non riusciva a dire la verità (soprattutto a se stesso). Adesso le cose sono un po’ cambiate per fortuna, almeno dal punto di vista mio e della lingua. Mi piacevano i novissimi (Sanguineti, Balestrini) e Giorgio Manganelli tantissimo, mi affascinava il suo modo di decostruire una favola tanto radicata. Poi sono partito e i novissimi li ho dimenticati per un po’, certe cose sono più traducibili anche concettualmente ed altre invece restano più ancorate ad un paesaggio nazionale.

Cosa hai imparato in particolare da Tony Buck e Chris Abrahams (The Necks) in termini di approccio alla sperimentazione, sempre se ritieni di esserti misurato con loro con quel preciso intento…

Ho imparato un sacco di cose da entrambi, anche diverse perché presi separatamente sono due personalità diverse che di più non si può. Forse in generale un certo senso di slowburn, di far crescere lentamente le cose fino a che diventano incandescenti.

E visto che ci siamo, che significato ha per te la parola “sperimentazione”?

È una parola un po’ vuota ma molto radicata. Se mi chiedono che musica faccio finisco sempre a dire “musica sperimentale”, un po’ per convenzione, anche se preferisco affermare “sono un musicista” o “sono un compositore” e basta. A volte c’è più sperimentazione in un’interpretazione di Martha Argerich che non in un concerto X di musica sperimentale. Qualsiasi musica creativa e viva si prende dei rischi e “prova” a fare delle cose fino a che non riescono.

Il ruolo della tecnologia è sempre più decisivo ai fini della composizione e della fruizione musicale. Tu ad esempio come ti rapporti con dischi, impianti di ascolto, musica sul web?

Preferisco ascoltare ripetutamente le cose, non sono un grande ascoltatore sul web, non mi piace il flux, lo detesto. Lo so che è assurdo per uno che fa tanta radio. Mi piacciono i dischi e mi piace sentire musica dal vivo. Se ascolto cose su internet lo faccio se c’è un legame con una data persona o una situazione in cui si ascolta insieme e si condivide uno spazio fisico. No ho un account Spotify o simile. In digitale ho invece una discreta collezione di lavori di arte radiofonica che altrimenti sarebbero molto difficili da trovare on line o su disco.

Senti di dover continuare verso una rigorosa, e comunque libera e personale, operazione di fusione tra i linguaggi? O magari un domani ti rompi le scatole e te ne esci con un disco di canzoni tradizionali e buonanotte al secchio?

È possibile, con Chris Abrahams recentemente suonavamo “Futura” di Lucio Dalla… Però, non ho un’agenda o un piano quinquennale ma un’urgenza a continuare in modo coerente. Ogni nuovo lavoro ne fa scaturire altri, le idee nascono lentamente e in modo graduale, l’una esce dall’altra. È per questo che sono pessimo nei brainstorming immediati. Prima di affezionarmi a un’idea, di sentire che posso dedicarle una dedizione assoluta, mi ci vuole parecchio tempo. Una volta creatosi un legame però non posso fare altro che seguirlo, è più forte di me, credo che sarà così per tutta la mia vita. Siccome non ho un particolare attaccamento a un genere, per questo sembra che io salti di qui e di là. In realtà se guardi da vicino vedi che non proprio non salto, sono tutti passaggi necessari. MaskMirror scaturisce dal lavoro radiofonico, Plane/Talea da MaskMirror, Journal de Bord da Trophies, riunendo il lavoro di montaggio e quello performativo. Trophies e tutto il lavoro sulla ripetizione escono sulle riflessioni sulla musicalità del parlato esplorate nel lavoro radiofonico, etc. Tutto si tiene e si muove in avanti piano piano.

Cosa ascolti di solito per conto tuo? 

Di tutto, se guardo le cose che si sono accumulate senza una logica precisa vicino al piatto nelle ultime settimane trovo due dischi – splendidi – di John Surman su ECM (The Amazing Adventures of Simon Simon del 1981 e Such Winters of Memory del 1982), Dejame Solo di Michel Portal del 1979, della musica elettroacustica di Xenakis, Painting With degli Animal Collective, il secondo volume di Traditional Music Of Notional Species di Rashad Becker e Storia O Leggenda delle Orme. Ho ascoltato molto anche la musica del mio amico Sébastien Roux, l’ultimo suo cd, Quatuor, mi ha fatto venir voglia di ritornare ad altri splendidi lavori come Nouvelle di un paio di anni fa (non c’è ancora su disco, credo). Piano piano sto anche ascoltando tutti i lavori radiofonici che Marcus Gammel e  Bonaventure Soh Bejeng Ndikung hanno commissionato per “Every Time A Ear di Soun”, la radio di Documenta 14 a cui partecipo con Regular Measures, una performance giornaliera dal 15 giugno al 7 luglio basata su Plane/Talea. In genere tanta musica degli anni Settanta, forse una forma di nostalgia e legata al lavoro su Journal De Bord. Questa è la situazione per il momento.

Chiudiamo con i prossimi progetti in cantiere, ne avrai di sicuro…

Quest’anno e il prossimo mi concentro su due cose: Journal De Bord e Plane/Talea. Il primo è un lavoro di teatro musicale basato sul diario di mia madre scritto nel 1978 al tempo della sua separazione dalla famiglia. È il diario di un viaggio a vela e un monodramma in due tappe prodotto dallo GMEM, Centre National De Création a Marsiglia di cui sono artista associato. Oltre a me in scena sono Carol Robinson ai clarinetti, Alexandre Babel alle percussioni e c’è l’assistenza musicale di Charles Bascou. Nella seconda tappa ci saranno anche Kenta Nagai e un tipografo. È un lavoro autobiografico, una calligrafia sonora e vocale in cui la mia voce corre parallela a quella di mia madre, ritracciando la rotta di un segmento scomparso della mia infanzia. La prima tappa è stata presentata in maggio al festival Les Musiques con una reazione molto forte a commossa da parte del pubblico che mi ha colto abbastanza impreparato. Continueremo a lavorarci quest’anno in vista della prima completa in maggio 2018. È il lavoro dal vivo di proporzioni più ampie che abbia mai fatto, la versione finale sarà di circa un’ora e un quarto se restiamo sui binari che abbiamo prospettato, ed è straordinario poter lavorare con l’accompagnamento di un gruppo entusiasta su un materiale che richiede di essere ricucito minuziosamente passo passo.

Plane/Talea è un pezzo/strumento basato su un archivio di frammenti di voci, decine di migliaia di piccoli frammenti fonetici che costituiscono dei ritratti di voci anonime e che formano una sorta di coro virtuale. È un lavoro granulare e combinatorio con un enorme potenziale sonoro e di interazione e che continuo a presentare in nuove versioni. È Plane/Talea alla base delle performance per “Every Time A Ear di Soun” a Documenta, sull’lp su Holidays, in varie improvvisazioni da solo o con dei vocalisti e degli headphones scores. È Plane/Talea anche che vorrei portare allo Studio Venezia di Xavier Veilhan alla Biennale di Venezia di quest’anno. In qualche modo Plane/Talea è anche un lavoro speculativo che riflette su un’idea astratta di “comunità” di suoni. E poi fresco fresco, anche se costruito poco a poco negli ultimi tre anni, è appena uscito: A Family Of Three (Band Photo), l’ultimo LP di Trophies su Unsounds Records abbinato a un lavoro fotografico di Michela Di Savino.

 

Precisazione necessaria: in questo articolo si è tentato di condensare il più possibile un corpus sonoro che definire complesso, eterogeneo e pieno di spunti e citazioni è dire poco. Per avere una panoramica esaustiva è opportuno visitare il sito ufficiale dell’artista.

Un grazie speciale va ad Enrico Bettinello per l’incoraggiamento e la consulenza, e ad Ariele Monti di Area Sismica per le foto.