Le Guess Who? 2019

Utrecht (NL), varie location, 7-10 novembre 2019.

È difficile non assumere toni trionfalistici parlando de Le Guess Who?. Il festival musicale di Utrecht, nato nel 2007, è un paradiso per qualsiasi amante della musica. Basti pensare che per quattro giorni si svolgono contemporaneamente concerti in circa quindici location sparse per la città e nella principale, il centro culturale Tivoli Vredenburg, ci sono ben cinque sale… senza contare due mini-festival collaterali e un programma extra di mostre e talks.

Ogni anno diversi musicisti vengono invitati a curare una parte della manifestazione: quest’anno è stata la volta di The Bug, Moon Duo, Jenny Hval, Patrick Higgins, Fatoumata Diawara, Iris van Herpen & Salvador Breed. Artisti volutamente molto diversi tra loro, perché uno dei principi fondamentali de LGW? è proprio la prolificazione delle diversità e l’intersecarsi delle culture. Teniamo presente che Utrecht è diventato un centro universitario molto importante nell’ambito della ricerca sugli studi di genere, e quello dell’inclusione è senz’altro un tema sentito e presente. Infatti c’è tanta musica non occidentale nella programmazione, un filone in cui gli organizzatori credono molto. Ma questo non significa che non abbiano trovato pane per i loro denti gli ascoltatori di musica classica o jazz, così come gli amanti del dub o del rap, dell’industrial o dell’elettronica. Ce n’era veramente per tutti. Quasi troppo verrebbe da dire, nel senso che bisogna ben presto rassegnarsi al fatto che sicuramente si mancheranno dei musicisti incredibili – pensate che Björk ha fatto un dj set a sorpresa di cui non mi sono minimamente accorta – e che si dovrà trovare un proprio ritmo per evitare di impazzire facendo avanti e indietro sulle scale mobili del Tivoli. In un momento in cui sono immersa nella consultazione del programma, un ragazzo mi guarda e mi fa il segno delle forbici con la mano. Non ha tutti i torti, quello di abbandonare la time-table e di lasciarsi guidare dalla casualità sarebbe un approccio con i suoi benefici, ma anche senza essere così radicali possiamo immergerci in questo evento con la giusta dose di curiosità e apertura all’imprevisto.

Day one

Oiseaux-Tempête: Tim van Veen
Oiseaux-Tempête: Tim van Veen

Per ragioni lavorative sono costretta a saltare il primo giorno, il che equivale a perdermi gente come Godflesh, Earth, Zonal, Caspar Brötzmann Massaker. Tuttavia non c’è tempo per i rimpianti, quindi venerdì 8 novembre è il mio day one. Nella sala più grande del Tivoli, la Ronda, ci sono gli Oiseaux-Tempête, ospiti del festival già due anni fa. Portano sul palco il nuovo album uscito ad ottobre From Somewhere Invisible (Sub Rosa) con la line-up al completo, anche di tutti gli attuali collaboratori: G.W. Sok, Mondkopf, Jessica Moss, Charbel Haber. L’impressione del live rispecchia quella che ho avuto del disco: aumenta la centralità di G.W. Sok e del suo spoken word dai toni profetici, ma soprattutto la musica del gruppo parigino è più dura e perentoria che in passato. I momenti dilatati ci sono ma in versione ridotta, offuscata. Il violino di Jessica Moss aggiunge qualità importante al dialogo tra i tanti strumenti utilizzati ma soprattutto la ricerca del momento estatico, del culmine, riesce sempre agli Oiseaux-Tempête.

Drew McDowall: Jelmer de Haas
Drew McDowall: Jelmer de Haas

In tutta fretta mi fiondo alla Cloud, sala più piccola alla sommità dell’edificio, dove Drew McDowall presenta dal vivo Time Machines, disco fondamentale dei Coil del 1998. È spalleggiato da Florence To al laptop, giovane donna scozzese con esperienza nella curatela e nella produzione di musiche per installazioni artistiche. Inutile dire che in questi venti anni i mezzi sono cambiati drasticamente e per questo l’attualizzazione è un’operazione interessante. La prima cosa che mi viene in mente lasciandomi guidare dai suoni è di trovarmi di fronte a una riflessione sul cosmo e sul nulla. Non si direbbe di avere a che fare con delle macchine: le vibrazioni dei drone sembrano incredibilmente organiche, naturali, e attraversando il corpo spingono verso una condizione meditativa. L’obiettivo del disco, d’altronde, è sempre stato quello di generare un’esperienza forte: superare la coscienza per “dissolvere il tempo”…

The Raincoats: Erik Luyten
The Raincoats: Erik Luyten

È tempo di cambiare radicalmente scenario. Nella sala Pandora (la migliore del Tivoli per quanto riguarda i volumi) suonano le Raincoats, storico gruppo femminile post-punk. Quarant’anni fa uscì il disco omonimo e per festeggiare lo propongono dall’inizio alla fine (ma nella versione del cd, più recente, perché a loro piace complicare le cose). Veder suonare queste signore è una gioia, c’è aria di libertà e il violino impazzito dà un accento turbofolk divertentissimo. La grande esperienza le porta a comportarsi sul palco come se fossero nel salotto di casa loro (nel bene e nel male), ma è anche una conseguenza del loro essere naïve e spontanee. Ammetto che per tutto il resto del festival non ho fatto altro che canticchiare la loro versione di Lola. Ana Da Silva ci dà appuntamento tra altri quarant’anni, quando ne avrà più di cento, e non vediamo l’ora.

A questo punto provo avedere i LOTTO, trio polacco molto interessante, ma la sala Hertz è piena e sono costretta a ripiegare su qualcos’altro. Entro nella Cloud e trovo Tyondai Braxton, compositore americano ex membro dei Battles, un altro che di macchine la sa lunga. Il suo live set si situa tra glitch e vaporwave. Pattern ritmici emergono dalla confusione per poi ripiombarci, sembra sia attratto proprio dal processo di decostruzione e disarticolazione dei suoni ma allo stesso tempo riesce anche a compiacere il pubblico con momenti ballabili.

È tempo di fare una sortita fuori dal Tivoli. Neanche dieci minuti a piedi e arrivo alla Jacobikerk, una delle due chiese cooptate da LGW?. È un edificio gotico risalente alla fine del tredicesimo secolo, dalla lunga navata centrale, le alte vetrate e gli archi a sesto acuto. La sala è piena di fumo bianco che rende difficile la visione. Anche questo fa parte della scenografia che Nick Verstand ha preparato per il concerto di Maarten Vos, insieme a un gioco di Led bianchi e rossi molto suggestivo. Il live per me è una scoperta: non conosco il musicista olandese, che alterna il violoncello ai synth per un risultato atmosferico e introspettivo.

Mi trascino al BASIS, club un po’ nascosto lungo un canale, per vedere il set di JK Flesh B2B Goth-Trad (i due hanno anche pubblicato uno split intitolato “Knights Of The Black Table”). Sostanzialmente si tratta di una sorta di industrial per clubbing che fonde insieme le diverse ispirazioni di entrambi. Inizialmente l’effetto è un po’ strano: le sonorità massicce si ripetono a ritmo regolare ma lento, il pubblico non sa bene come muoversi, fino a quando la velocità aumenta e il set vira in direzione dubstep.

Lightning Bolt: Jelmer de Haas
Lightning Bolt: Jelmer de Haas

Torno al Tivoli per il live che stavo aspettando: i Lightning Bolt che presentano il nuovo disco Sonic Citadel, uscito a ottobre per la Thrill Jockey. Nonostante siano le due, la Ronda è quasi piena e Brian Chippendale ci dice che dovremmo essere a dormire. Attaccano con “The Metal East” ed è subito panico: il pubblico impazzito crea un grosso cerchio dove accade un po’ di tutto. Come sappiamo, Chippendale è sostanzialmente un bambino alle prese con il suo giocattolo preferito (la batteria), trasferito però nel corpo di un americano palestrato a cui non manca la tecnica. I due trasmettono un’energia pazzesca e chi li guarda non può che reagire: l’entusiasmo strappa un sorriso a Brian Gibson, che con il suo basso ormai fa veramente ciò che vuole. Arriva un trittico di canzoni nuove: “Air Conditioning”, “Blow To The Head”, “USA Is A Psycho”. Rispetto all’ispirazione metal di Fantasy Empire, per quest’ultimo disco il duo ha trovato una formula differente: il ritmo è leggermente più lento ma ciò rende le canzoni ancora più potenti del solito. Per il day one può veramente bastare.

Day two

Decido di iniziare il day two lontano dal centro, a Rotsoord, una ex area industriale lungo un canale dove alcuni edifici sono stati convertiti in bar, ristoranti, alberghi. Tra loro c’è il De Helling, è una venue molto frequentata dalla gente del posto. Ad aprire la serata ci sono i Lalalar, band di Istanbul che tenta di miscelare sonorità rock ed electro con melodie tipiche della loro terra. Nonostante i numerosi tentativi di coinvolgimento del pubblico da parte del cantante, nel complesso la performance resta un po’ fredda.

Ahmed Ag Kaedy (senza crediti)
Ahmed Ag Kaedy (senza crediti)

Non si può dire lo stesso di Ahmed Ag Kaedy, per cui il rapporto con le proprie radici è ancora più centrale. In una sala appartata del LE:EN, ottimo ristorante asiatico a pochi passi dal De Helling, il musicista vestito in abiti tradizionali del popolo Tuareg racconta la sua Kidal, città del Mali che dà il titolo all’Lp (Alkaline Kidal). Non posso capire la lingua di Ahmed, ma dalle dolci litanie, dallo sguardo intenso, dalla Fender pizzicata traboccano dolore e esperienza. È bellissimo percepire il rapporto forte che c’è tra il chitarrista e il suo strumento quando formano una cosa sola, come in questo caso. Ahmed è un vero cantore folk di terre lontane, che è riuscito a portare un po’ di Sahara perfino in Olanda.

Jenny Hval: Tim van Veen
Jenny Hval: Tim van Veen

In tutta fretta vado allo Stadsschowburg (teatro nazionale) per vedere Jenny Hval. La musicista norvegese presenta The Practice Of Love, uscito a settembre per la Sacred Bones Records. La scelta è di alternare i brani del nuovo lavoro con momenti performativi a cui partecipano la stessa Hval, i musicisti e le musiciste che la accompagnano e una performer tout court. Il tema è quello dei gesti quotidiani e della loro capacità di farci entrare in connessione empaticamente. Ho apprezzato molto la musica, con il suo electro-pop così delicato e personale, ma decisamente meno la mise-en-scène, vuota e un po’ stucchevole.

Di nuovo al Tivoli per vedere un altro curatore, che ha decisamente lasciato il segno su questa edizione: The Bug, che in 4 giorni ha suonato ben 4 volte con progetti differenti. Stavolta è il turno della collaborazione con Flowdan (già ospite nel suo album del 2008 London Zoo) e Manga Saint Hilare, due figure del grime londinese alquanto sconosciute da noi. La voce profonda e possente del primo si incastra con le rime veloci del secondo, le basi di The Bug sono un inferno industrial-hip hop. L’esperimento di fusione è riuscitissimo, come sappiamo in questi anni nel rap si esprime una potenza che non ha eguali in altre forme musicali e tutta la sala non può che saltare ed esaltarsi per le liriche dei due (secondo il manifesto di Flowdan: Nobody don’t trust nobody, that’s how we function, Welcome To London).

Riposo un po’ le orecchie con gli Xylouris White, duo composto dal cantante e suonatore di liuto greco George Xylouris e dal batterista australiano Jim White. Quest’ultimo sembra danzare sopra al suo strumento, ogni colpo è assestato con fluidità e ampiezza di movimenti, mentre la voce incantatoria intona le litanie elleniche del nuovo album The Sisypheans. Ma è giusto una breve parentesi, perché nella sala Pandora mi aspettano gli Amnesia Scanner. Il duo finlandese di stanza a Berlino è aggressivo e disorientante come è giusto per questi tempi malati. Elettronica che all’interno incorpora di tutto, addirittura ritmi cumbieri, purché deviati in senso disturbante. Il patchwork di elementi altisonanti, la riflessione su di una società dominata dai dati informatici con relativa alienazione mi ha ricordato il nostrano (e troppo poco conosciuto) Vipra. Comunque gli Amnesia Scanner dal vivo propongono uno show molto più violento rispetto ai dischi: ci stordiscono con le luci stroboscopiche, ci bombardano con immagini iconoclaste (una delle loro preferite è Che Guevara sfigurato). È musica dell’apocalisse di cui semplicemente ne vorresti ancora, loro giocano a spingersi oltre, al limite del sopportabile, anche se è tutto estremamente curato e calibrato.

Il tasso alcolico generale sale e il Tivoli ormai è una bolgia. Il mio finale di serata però è segnato dai batteristi: nella Cloud suonano insieme, una batteria accanto all’altra, Brian Chippendale e Greg Fox (quest’ultimo è un newyorchese un tempo dietro alle pelli dei Liturgy, oggi autore di album solisti in cui pratica anche sperimentazioni elettroniche). Non sono un’esperta dello strumento, ma l’impressione che ho è che Brian vada per la sua strada, esibendo le sue capacità (mostruose) e rimanendo nel suo territorio, ovverosia praticando lo stile che conosciamo bene tra Lightning Bolt e Black Pus. Greg per la maggior parte del tempo ride, con aria divertita e ironica, lanciando occhiate a Brian per provare a agganciarsi in qualche modo al suo compagno con tendenze autistiche. Ne escono comunque due tocchi differenti, probabilmente più versatile e meno aggressivo quello di Greg, che cerca di integrare anche ritmi tribali.

Petbrick: Erik Luyten
Petbrick: Erik Luyten

Il batterista che si prende la scena per il gran finale però è nientemeno che Iggor Cavalera, membro degli arcinoti Sepultura, che qui presenta il nuovo duo Petbrick insieme a Wayne Adams dei Big Lad. Quest’ultimo si occupa delle macchine e della voce, o sarebbe meglio dire delle grida, che comunque lasciano spazio a ampi brani strumentali. Il loro primo album I è uscito da pochissimo per Rocket Recordings, ma si vede subito che dal vivo hanno un impatto incredibile, forse superiore a quello del disco. Propongono un noisecore oscuro, dal sound industrial, con Iggor che picchia forte e veloce come un treno senza freni (e che porta la maglietta della band con lo slogan “noise against nazi scum”, che fa sempre piacere). Per gli appassionati del genere sono la “next big thing” e sono sicura che impareremo a conoscerli bene in futuro.

Day three 

Paracetamol: Lisanne Lentink
Paracetamol: Lisanne Lentink

Decido di iniziare il terzo e ultimo giorno dal festival satellite (e gratuito) Le Mini Who?, nell’area industriale Cartesius, dove una decina di locali propongono per lo più gruppi olandesi. È una bellissima iniziativa, molto partecipata dai giovani di Utrecht, che alza decisamente il tasso di punk e hardcore un po’ carente nel festival principale. Nel mio caso vedo alcuni gruppi al dB’s, un complesso composto da numerose sale prove, un bar e due sale concerti. Inizio dai Bagdaddy vs. The Blackouts, interessante band fuori dagli schemi dalle influenze arabeggianti, trainati da un’istrionica cantante, per poi passare a Hurricane Joe, folkman dal magnetico look da fuorilegge, con tanto di passamontagna. Ma la vera scoperta sono i Paracetamøl, gruppo proveniente della città di Arnhem. Non mi viene definizione migliore di questa: come può essere suonato il punk nel 2019, al massimo delle sue possibilità. Sono fortemente influenzati dal garage ma senza sacrificare la velocità, il cantante è un’animale da palco, sono incazzati, ma con tantissimo stile. L’ep omonimo non rende loro assolutamente giustizia, speriamo esca presto qualcosa all’altezza della performance live, il nuovo singolo “Hectic Coop” è già sulla buona strada.

Holly Herndon: Jelmer de Haas
Holly Herndon: Jelmer de Haas

La mia ultima session al Tivoli inizia con Holly Herndon, che presenta il suo nuovo disco PROTO, uscito per 4AD. L’operazione della musicista americana, alfiera dell’elettronica hi-tech, è molto interessante: miscelare estremamente antico con estremamente moderno, concentrandosi su un elemento primigenio della nostra specie come la spiritualità, alla quale attingere attraverso un rito comunitario. Sul palco della Ronda, infatti, ci sono diverse coriste che intonano canti mentre la Herndon ci mostra visuals ultra futuristici. Insomma, macchine e esseri umani si tengono per mano, senza le catastrofi delle distopie a cui siamo abituati. Devo dire che è  riuscita a convincermi con facilità, mentre normalmente i suoi lavori non sono propriamente la mia “cup of tea”. Ho provato sentimenti contrastanti quando, finita la musica, ha chiesto al pubblico di cantare in coro in una sorta di liturgia laica.

The Ex: Rogier Boogaard
The Ex: Rogier Boogaard

È poi il momento dei The Ex ed è veramente una festa essendo il gruppo di casa (tra l’altro, hanno già suonato al festival due anni fa). È un concerto che si ricollega idealmente a quello delle Raincoats: anche qui c’è aria di libertà ma la band di Amsterdam sa mettere insieme momenti puramente sperimentali con un bel muro di suono. La loro musica è fresca e attuale, non si direbbe che hanno ben quarant’anni di carriera alle spalle, ma questo probabilmente è l’effetto che fa il non aver mai voluto diventare una vecchia copia di se stessi.

L’ultimo volto del mio LGW? è Cate Le Bon, musicista gallese fortemente influenzata da Nico e Patti Smith (a conti fatti, un po’ troppo, direi). Elegante e rilassante, è l’ideale per la mia uscita di scena. I concerti andrebbero ancora avanti ma le mie energie sono esaurite. Grazie al vento, alle canne, ai treni, agli amici che mi hanno ospitato e agli organizzatori di questo fantastico festival. Mai come stavolta, see you next year.