L’Avant-Pop di Club To Club 2017: come suona la musica del futuro?

Yves Tumor, foto di Daniele Baldi

Quando parliamo di Avant-Garde facciamo generalmente riferimento a una sorta di “estetica della rottura” che metta in discussione la stessa natura dell’arte e il rapporto che questa ha con la società, sostenendo la necessità della liberazione dell’individuo tramite l’azione. Attraverso nuove forme di linguaggio e rappresentazioni provocatorie, con l’annullamento del momento comunicativo o l’identificazione dell’espressione artistica con un’altra azione del fare umano, si cerca di sovvertire la cultura dominante, spesso ribaltando un elemento del passato per renderlo identificativo del presente. Non è un caso, quindi, che la diciassettesima edizione del Club To Club, il festival che negli ultimi anni si è definito avant-pop, sia partita dal claim “Cheek to cheek”, un’espressione che fa eco al ballo guancia a guancia di Fred Astaire e Ginger Rogers in “Cappello A Cilindro”, celebre pellicola del 1935, invitando i partecipanti a recuperare oggi una dimensione più intima del loro approcciarsi alla kermesse. Infatti, in un mondo in cui a causa dell’utilizzo dei social siamo sempre più vicini ma sempre più soli, diventa necessario rivendicare la musica come occasione di contatto reale. Se il concetto di avanguardia è legato a un processo di rottura o comunque di rovesciamento del già esistente o del già esistito, quello di pop(ular) rimane invece soggetto a un’evoluzione graduale di modelli standardizzati, molto spesso attraverso archi temporali abbastanza vasti: parlando di avant-pop ci troviamo quindi di fronte a una contraddizione in termini? Non proprio, a patto di considerare la locuzione non come l’incontro fra due mondi (fra l’altro spesso contigui) quanto come un pronostico (tendente all’auto-avveramento, visto il peso assunto negli anni dalla rassegna torinese) sulla musica di largo consumo che verrà.

Il collegamento col passato è ben visibile anche nella scelta delle location: la Reggia di Venaria, l’ex officina ferroviaria, le mura dell’ex fabbrica FIAT del Lingotto e le strade di quella San Salvario, diventata simbolo della gentrificazione, vengono utilizzate come contenitori nei quali le prospettive si ribaltano, riempiendo di musica quelle sale che, un tempo, furono il simbolo della ricchezza e dell’industrializzazione sabauda.

I

The future is a much better guide to the present than the past (Kodwo Eshun)

Visible Cloaks, foto di Daniele Baldi

La serata inaugurale del festival si svolge alla Reggia di Venaria e vede protagonisti i Visible Cloaks (di Spencer Doran) e Bill Kouligas, direttore artistico di un’etichetta peculiare come la PAN.

Il territorio comune ai due progetti sembra essere una certa vocazione sinestesica, seppur con delle differenze: il duo di Portland s’è fatto apprezzare per aver dato vita a una ambient dalle influenze nipponiche che sfrutta i canoni compositivi della New Age in una sua riconversione digitale. Campionano voci, suoni, utilizzano informazioni MIDI generate da frammenti di musica, destrutturano e stratificano dando vita ad un’elettronica hi-fi che ipnotizza, grazie anche a dei filmati geometrici dai colori acidi. Il sound di Bill Kouligas, invece, deriva da un mix di oscure ascendenze techno, reminiscenze industrial e attitudine punk-hardcore, dalle quali parte per declinare la sua visione di contemporaneità basata sulla fusione dei linguaggi della grafica, dei visual e della musica, secondo quelle nuove traiettorie tracciate dall’accelerazionismo digitale e che erano già state protagoniste qualche anno fa del progetto audiovisuale web-based “Lexachast”, realizzato in collaborazione con gli Amnesia Scanner. Qui lo vediamo circondato da figure mostruose e inquietanti, sempre declinate su tonalità scure, finché non appaiono una serie di emoticon, quelle immagini che, grazie alle loro immediatezza semiotica, si stanno sempre più velocemente sostituendo al linguaggio vero e proprio.

Il contrasto che si crea è dunque ancora quello tra passato e futuro: da un lato, grandi quadri e affreschi ritraggono scene di vita quotidiana trasmettendo ai posteri lo sfarzo e la magnificenza dell’era regale. Dall’altro, suoni e immagini ci riportano all’era di Internet, sempre più caratterizzata da un senso di straniamento e ansia.

II

Kamasi Washington, foto di Andrea Macchia

Il day 2 di Club To Club alle OGR ha per protagonisti Kamasi Washington, Powell & Wolfgang Tillmans, Everything Is Recorded e Artetetra.

Il live di Kamasi è forse quello più “alieno” nel contesto del festival, come l’anno scorso quello degli Swans. L’atmosfera metallica delle OGR, ex officine dedite alle riparazioni di locomotive, è l’habitat ideale per i suoni jazz e acid-funky del californiano, giunto alla ribalta grazie a The Epic, una sorta di monumento al genere nel quale a essere appunto epico – oltre al minutaggio – è il lavoro sulle partiture. Nonostante l’inizio un po’ freddo, che lascia il pubblico disorientato, i protagonisti dello spettacolo (tra i quali figura anche il padre stesso di Kamasi) riescono a farsi perdonare, dando vita ad una jam suggestiva (grazie anche alle variabili dell’improvvisazione) della durata di quasi due ore, mentre gli spettatori, alcuni dei quali giovanissimi, si scatenano in danze tribali e tarantolate. Il sassofonista si fa quindi riconoscere per i suoi virtuosismi, resi più pop da pennellate funky e che ripercorrono la carriera di questa promessa della musica black contemporanea, come ben evidenziato dal solenne finale, nel quale viene riproposto il brano “Truth”, tratto dall’ultimo album: le cinque melodie di Harmony Of Difference vengono riprese, ampliate, sovrapposte, volendo in qualche modo sottolineare la bellezza armonica che scaturisce, per l’appunto, dalle differenze. Cinque melodie come i cinque continenti del mondo, un inno alla convivenza pacifica su questa terra che, in musica, ha dei risvolti quasi spirituali, resi tali dalla figura di questo musicista, un vero e proprio sciamano illuminato sopra il palco. Spettacolo affascinante e fruibile anche dai non-jazzofili.

III

Con venerdì il festival si sposta al Lingotto. A differenza degli altri anni non esiste più la “focosa” sala gialla, ma un intero padiglione è dedicato alla “Red Bull Room”: uno spazio aperto, che ricorda un vecchio capannone abbandonato, nel quale si alterneranno alcune delle esibizioni più convincenti di questa edizione.

There were no boundaries to what was possible. Nothing shocked us, nothing was outside the possibilities of the group. It wasn’t that we went to the edge of anything, it was simply that we didn’t have an edge (Painful But Fabulous: The Lives and Art of Genesis P-Orridge, Genesis P-Orridge, 2002)

Questa citazione di Genesis P-Orridge è necessaria per poter capire due delle performance che più hanno lasciato il segno, ovverosia quelle di Arca e di Yves Tumor. I due sono certo diversi dal punto di vista compositivo, ma sono vicini per alcuni aspetti molto importanti: fanno parte di una minoranza etnica, sono queer e usano il loro corpo come strumento comunicativo. In entrambi i casi non abbiamo assistito semplicemente a dei live, bensì a degli spettacoli di performance-art molto più vicini al punk o all’estetica industrial di gruppi come i Cabaret Voltaire che alla classica elettronica da club. Altra chiave di lettura possibile di tali esibizioni “estreme” è il riferimento all’azionismo viennese, il cui principio era quello di utilizzare il corpo come luogo di violenza e di tortura su una scala che il mondo dell’arte non aveva fino ad allora – siamo all’inizio degli anni Sessanta – mai visto: nella visione radicale degli azionisti viennesi, questo diviene oggetto che può essere torturato, manipolato o tagliato. È quindi interessante, cinquant’anni dopo, vedere sul main stage Arca in quello che sembra uno spettacolo queerness di cattivo gusto ma che è molto, molto di più. Dietro a quel corpo quasi androgino, vestito con solo una camicia e i tacchi alti, si nasconde in realtà una dimensione di protesta con sfumature molto più ricche di quelle che qualsiasi gruppo hardcore-punk di oggi ci potrebbe sputare in faccia. Un problema con il laptop ritarda la partenza del live, che inizia poi come una pièce teatrale, dove la voce seducente e ipnotica del venezuelano, che raggiunge il suo apice in pezzi come “Piel” o “Desafio”, fa solo da pretesto all’esibizione vera e propria. Gli elementi centrali dello show sono infatti il suo fisico, i suoi gesti, la simulazione di colpi subiti da lui stesso, un’umiliazione che sfocia poi in una rivincita durante la quale trafigge l’aria a suon di frustrate, mentre sullo sfondo compaiono scene a sfondo sessuale, sapientemente animate dal sodale Jesse Kanda. Alejandro si muove tra la folla, anzi, smuove la folla, obbligando le persone a spostarsi mentre cammina su dei trampoli che sembrano provenire direttamente dal futuro. Lancia rose, parrucche, veli, la sua pare una marcia dolorosa durante la quale la musica si fa veicolo di un messaggio forte e diretto, che vuole liberare la nostra sessualità. E infatti il live si conclude con un video omo-esplicito, una penetrazione che irrompe nel nostro sguardo come i suoni spigolosi e violenti che la accompagnano, mentre Arca ripete “Don’t be scared: it’s just bodies”.

Nel padiglione due Laurel Halo comincia il suo show con un lungo strumentale che odora di incensi tibetani, immersivo e confortevole, quindi passa al suo piatto forte, la voce, che qui si produce in melodie dal sapore soul passate per l’auto-tune, accompagnata da una fitta stratificazione di suoni dalle tinte tenui. Solo nel finale si deciderà a inserire una cassa bella massiccia; per il resto la sua è una performance mai sopra le righe, una sorta di piano bar per androidi che si pone in acceso contrasto con quello che ci aspetta subito dopo sul palco, sempre del padiglione due.

Ben Frost fa la sua comparsa in scena dando di sé un’immagine leggermente diversa da quella a cui ci ha abituato: canotta, capelli più lunghi del solito, barba sfatta, diremmo trasandato ad arte. La chitarra appesa al collo è l’unica che vedremo in tutta la serata, anche se il suo è un set che di chitarristico ha ben poco. La figura di Ben si staglia a malapena dalla scenografia approntata sul palco, un muro di fogli di plastica dietro al quale vengono proiettati visual scarni, e sul quale si riverberano le luci del padiglione, creando un effetto a metà fra la tempesta elettrostatica e il paesaggio artico, un riferimento, chissà, ai suoi soggiorni in Islanda, al suo lavoro (del quale, ingiustamente, poco si è parlato…) per la colonna sonora della serie televisiva “Fortitude” o semplicemente al cognome che porta. Il corpo attorno a cui ruota la performance qui non è tanto quello del musicista, quanto quello dello spettatore, martoriato da una quantità spaventosa di basse frequenze, che a ondate lo investono: lo spettacolo nello spettacolo è voltare le spalle all’artista e assistere alle espressioni di sofferenza del pubblico, dilaniato fra il fastidio sadicamente inferto dall’australiano e il piacere di assistere a un set decisamente di grande spessore, fatto di pochi suoni messi insieme con un gusto senza pari. Ben Frost, con il suo sublime supplizio, ci tiene a ricordare che piacere e dolore sono due facce di una stessa medaglia e che per pervenire all’uno molto spesso si debba fare i conti con l’altro.

Di Jlin e del suo Black Origami si è parlato tanto e bene durante quest’ultimo anno: l’esperienza che ci offre dal vivo, come da aspettativa più cerebrale che fisica, ripropone, non senza qualche sbavatura, le cose sentite su disco. La producer dell’Indiana, immersa per tutto il tempo nella luce delle lampade stroboscopiche, sciorina i suoi arabeschi iper-ritmici all’interno dei quali per qualcuno è possibile con molta abilità districarsi con qualche ardito moto oscillatorio; lei dal canto suo sembra divertirsi parecchio ad armeggiare fra le sue macchine, concedendo poco al pubblico in termini di fisicità, ma sfoggiando qua e là un sorriso sornione che vale tutto.

L’ultimo nome ad essersi aggiunto nei giorni scorsi al già nutrito cartellone del Club To Club è quello di STILL, progetto post-colonialista di Simone Trabucchi, da poco approdato nel catalogo PAN. Simone, già Dracula Lewis, recita qui la parte del manovratore silenzioso: quasi in disparte dietro le console, tira fuori suoni precisi e potenti, mentre il palco viene lasciato in balia di tre vocalist strabordanti, due ragazzi e una ragazza di origine etiopi – ma tutti cresciuti in Italia – che coinvolgono l’uditorio nel loro show gioioso: una mescolanza di dub, reggaeton e cumbia a un’elettronica futuribile. Nell’idea di Trabucchi STILL rappresenta, in maniera sfumata e senza nemmeno troppa retorica, un argine musicale alla regolarizzazione normativa bianca/occidentale, in una prospettiva che potremmo definire afro-accelerazionista.

Più tardi, sotto al palco della Red Bull Room, irrompe brutalmente, senza farsi troppi problemi a spintonare il pubblico in prima fila, un uomo incappucciato. Rimaniamo qualche secondo impietriti nel vedere che sta trascinando Yves Tumor, con le mani imbrigliate dietro la schiena in una specie di asta metallica, davanti alle transenne, al centro della stanza. L’artista viene quindi legato con delle lunghe catene. Tutti restano senza parole quando del noise estremamente disturbante rimbomba a volumi improponibili in tutto il padiglione. Yves tenta di liberarsi con forza dalle catene, cerca il confronto diretto con la folla, prende addirittura qualcuno a testate. La scena dura quasi dieci minuti finché non viene liberato e ci devasta il cervello per oltre tre quarti d’ora, con un vero e proprio atto di terrorismo sonoro e visivo che stupisce per la violenza radicale con la quale viene presentato, in netto contrasto con le movenze eteree e sensuali del suo ideatore, dando forma a un atto di non-musica che sembra appunto strizzare l’occhio all’estetica dello shock di band come i Throbbing Gristle. Forse siamo di fronte a un tentativo di critica ai modelli di intrattenimento dominanti: l’idea della catena, del suo dissolvimento, sembra quasi riferirsi al fatto che la musica e lo spettacolo non possono avere limiti, riprendendo le teorie di Deleuze & Guattari secondo le quali l’arte si trasforma in filosofia e pensiero critico, “We do not lack communication. On the contrary, we have too much of it. We lack creation. We lack resistance to the present” (1).

Ultimi a salire sul palco del padiglione due sono i Demdike Stare, con un set che ricalca fedelmente la svolta “pestona” dell’ultimo disco, Wonderland. Zero visual, dei due si distingue appena la sagoma sullo sfondo rosso; sembrano quasi estranei alla realtà che li attornia, due alieni dalla cui simbiosi scaturisce il suono. Il corredo hauntologico sembra essersi praticamente dissolto nell’urgenza del beat, i continui scarti spazio-temporali apprezzati in dischi come Liberation Through Hearing restano solo un vago ricordo: nelle sonorità del duo inglese il futuro diventa adesso qualcosa di cui non si ha più nemmeno nostalgia, categoria derubricata in favore di uno sguardo inesorabilmente volto verso il qui ed ora.

IV

Il sabato contiene una delle esibizioni più attese, quella di Liberato, il misterioso artista napoletano che unisce neo-melodico, R&B e dance e che ha attirato l’attenzione su di sé la scorsa primavera, caricando su YouTube due video molto belli, diretti da Francesco Lettieri. Nessuno sa chi sia, nessuno sa se esista veramente, al Mi Ami ha paccato, lasciando Calcutta, Izi, Priestess e Dj Shablo a fare le sue veci. Il main-stage è completamente al buio quando parte l’intro “Liberato I”, un mix di sonorità autoctone che intrecciano Napoli, il Medio Oriente e l’Africa. L’alone di mistero viene reso ancora più intrigante dai visual luminosi dei Quiet Ensemble, un duo che si dedica alla sperimentazione e all’ideazione di opere video interattive, mescolando tecnologie ed elementi naturali. Sul palco ci sono tre figure incappucciate, l’intera performance è sostenuta da giochi di luci e proiezioni aeree che amplificano l’anonimato di uno che ha fatto milioni di visualizzazioni con soli tre pezzi, tra l’altro non disponibili per l’acquisto in rete, e che ha presentato un nuovo brano per riuscire a allungare i tempi del concerto. Dovendo dare un giudizio puramente soggettivo, possiamo dire di aver trovato il live a tratti ridicolo e pretenzioso. Le basi sembravano rallentate rispetto ai video, rese più scarne, e la voce era discutibile. D’altra parte, però, bisogna ammettere che la figura di Liberato fa riflettere. Da un lato, vedere un’ex area industriale in quella Torino che ha accolto migliaia di lavoratori del Sud nel Dopoguerra, gremita di giovanissimi di tutte le regioni cantare in napoletano, un po’ fa effetto. Dall’altro il suo mancato coinvolgimento con il pubblico o le critiche sul fatto che non abbia detto una sola parola ci devono fare riflettere: Liberato non esiste in un ambiente esterno a quello di Internet. Le nuove tecnologie hanno già ribaltato la nostra concezione del corpo che si smaterializza, portando al successo ciò che è irreale. La domanda quindi non può essere “era lui?”. Liberato esiste, nel momento in cui noi gli diamo la possibilità di farlo, in qualsiasi sua forma.

Il sabato ci sono anche Lorenzo Senni, Daniele Mana e Gabber Eleganza, tre artisti diversi che però fanno parte del roster di The Italian New Wave, il side-project di Club To Club che promuove la creatività italiana nel mondo, selezionando produzioni uniche ed innovative. Nei giorni precedenti si erano già esibiti Artetetra, Not Waving e Ninos Du Brasil, dandoci come l’impressione che, ultimamente, Italians do it better.

Questo è il caso, ad esempio, di Mana, il nuovo alter-ego del producer torinese Daniele Mana, già noto come Vaghe Stelle e di cui avevamo parlato qualche mese fa in occasione di “Creature”, l’ep pubblicato per la Hyperdub di Kode 9.

Mana propone quindi le tracce del disco, arricchendole di modo da creare un’esperienza live unica e particolare. L’intro sembra inserire elementi naturali, cinguettii di uccelli in primis, prima di sprigionarsi in una performance audio-visiva che sembra voler ricreare un temporale estivo, di quelli che ti colgono di sorpresa facendoti chiedere se vuoi scappare a ripararti lontano o se vuoi rimanere a sorprenderti di quella glaciale immediatezza. La componente visiva è stata curata da Stefano Maccarelli che già aveva collaborato con i Niagara per la creazione di Hyperland, un’esperienza in realtà virtuale audio-reattiva in cui i paesaggi metafisici prendono forma a partire dai suoni del trio torinese.

L’installazione creata per il live di Mana è molto più impattante, nel senso che è strutturata partendo da una serie di LED luminosi che ricreano una tempesta di luce, in grado di stordire lo spettatore. Nell’esecuzione, quindi, il torinese sembra aver fatto un passo avanti: non siamo più nel contesto della “soundscape composition”, si può piuttosto parlare di “escapismo”, ossia del tentativo di portare l’ascoltare in un altro luogo, di estraniarlo dalla realtà per fargli vivere un’esperienza lontana ma condivisa con l’animo irrequieto dell’artista.

I live di Lorenzo Senni sono sempre caratterizzati da un tecnicismo innato, preciso, nel quale i suoni vengono tagliati in modo netto e ricomposti vorticosamente, dando vita a quella “pointillistic trance” che lo ha reso uno degli artisti di punta della nuova scena elettronica a livello mondiale, tanto da spedirlo su Warp Records. Questo genere non è fatto per ballare, piuttosto per farsi rapire da suoni ossessivi, cambi di velocità, dai movimenti ipnotici dell’esecutore che dipinge piccoli frammenti di universi alieni. Senni fa anche le due tracce contenute nell’ultimo ep, XallegroX e The Shape Of Trance To Come, incantando la folla con build-up, arpeggi e melodie, sapientemente sprigionati dalla sua Roland JP-8000.

Gabber Eleganza, foto di Stefano Mattea

È difficile ammetterlo, ma uno dei migliori live del C2C – 2017 è stato senza dubbio quello di Gabber Eleganza. Questo genere musicale, che ha radici nella hardcore music olandese, è spesso stato bistrattato, snobbato, deriso e preso poco seriamente, soprattutto in Italia dove è stato dai più relegato come fenomeno tamarro da autoscontri. Il progetto nato nel 2011 come un archivio web su Tumblr atto a raccogliere immagini e testimonianze della scena gabber degli anni Novanta, serve per farlo conoscere e rivalutare, e di recente s’è trasformato nel suggestivo spettacolo The Hakke Show, nel quale alla musica a 180bpm si uniscono le coreografie di ballerini che ripropongono i celebri passi di questo genere musicale. Ancora una volta possiamo quindi fare riferimento a un legame col passato che, partendo da una sottocultura, permea la stessa di elementi contemporanei, futuribili, dando vita a qualcosa di completamente nuovo. Se l’intento di Alberto Guerrini era quello di far rivalutare una cultura iconica che, nel passato, è stata largamente criticata da più parti, allora si può dire che c’è ampiamente riuscito. Basta dare uno sguardo ai presenti, ai loro corpi in movimento, ai loro sorrisi nonostante siano passate le cinque del mattino. Sul palco i ballerini incitano a ballare, si fanno fieri portavoce di un movimento, come evidenziato anche dalla bandiera sventolata da uno dei ragazzi e sulla quale è stato stampato il leitmotiv “Never Sleep”.

V

Ultimo atto del Club To Club è Dance Salvario, block-party organizzato nell’omonimo quartiere torinese: dalle undici della mattina la zona fra Largo Saluzzo e Piazza Madama Cristina si anima di mercatini dedicati a vintage ed artigianato, laboratori di “pimpaggio delle biciclette”, street-food, attività per i più piccoli, danza e, ovviamente, molta musica. In Piazza Madama Cristina si esibiscono, a partire dalle diciassette, i Gang Of Ducks, in uno show realizzato per promuovere la prima uscita su disco del collettivo torinese: elettronica minacciosa al suono della quale si resta volentieri a ciondolare mentre si spulcia ben bene il banchetto dei vinili o ci si prova quel vecchio giaccone in shearling che fa tanto Jerry Calà in “Vacanze Di Natale”.

Dance Salvario, foto di Daniele Baldi

Nota: abbiamo seguito quasi esclusivamente i live della Red Bull Room un po’ per gusti personali, un po’ perché non pensiamo che gli artisti che si sono esibiti sul main-stage abbiano bisogno di presentazioni. Da Richie Hawtin a The Black Madonna, dai live di Bonobo e di Nicolas Jaar – che è stato protagonista anche del dj-set di chiusura della kermesse – il livello delle performance è stato altissimo, accontentando i gusti di una platea eterogenea e diversificata. Un discorso a parte andrebbe fatto per i Kraftwerk e il loro The Catalogue 3D: il loro è stato un live che ha ripercorso l’intera carriera artistica della band, da Autobahn a Tour de France, e che è stato ospitato negli spazi delle OGR dal 4 al 7 novembre. Un progetto che storicamente combina suono ed immagini e che ancora una volta sostiene le premesse di questa edizione, dove passato e presente si sono uniti per dar forma a quei suoni futuribili che abbiamo potuto ascoltare durante questa settimana, ricca di novità ed eventi.

Che il suono del futuro sia un viaggio nell’eterno ritorno?

Grazie allo staff del C2C. Le foto sono di Andrea Macchia, Daniele Baldi e Stefano Mattea.

(1) What Is Philosophy?, Gilles Deleuze & Felix Guattari, 1991. Verso, London – New York