LAINO & BROKEN SEEDS, The Dust I Own

Il classico treno spazzolato, uno shuffle incalzante, una chitarra rauca e minimale che ci porta subito in acque fangose, un’armonica a languire nella palude, per poi lasciare campo alla voce, bianca solo per caso. Questa è “Fate Of A Gambler”. Andrea Laino, assieme ai Broken Seeds da Bologna, scommette sul blues elettrico, sul fantasma di Muddy Waters, e la puntata è davvero fortunata: bottino pieno, infatti il disco ha già varcato i nostri confini, uscendo per un’etichetta tedesca.

The Dust I Own (bel titolo, immaginifico e laconico al tempo stesso, intimamente blues dunque) non fa prigionieri, con una ricetta classica e immortale. Essere credibili e sinceri con questo tipo di musiche senza essere retorici e didascalici non è mai semplice, ma non è affatto un problema per Andrea, dotato di grande carisma, personalità e una penna davvero felice. I pezzi funzionano a meraviglia. Dall’indolenza roots di “Can’t Wake Myself Up”, con suoni di percussioni che rimandano felicemente ai tempi del monumentale Bone Machine di Tom Waits, col sousaphone di Mauro Ottolini che funge da basso e con una chitarra memore delle svisate di Marc Ribot, alla malinconia americana di “On The Wood” (I feel blue in the morning, I feel blue in the evening), The Dust I Own affascina e accompagna con una ricetta che nulla ha di rivoluzionario, ma semplicemente si basa su fondamenta solidissime e convincenti. D’altro canto Laino ha già collaborato con musicisti di grande rilevo in Italia, come il pianista Fabrizio Puglisi, avvistato di recente con Rob Mazurek al Forlì Open Music. Musica che fa stare bene pur venendo dalla polvere, pur cercando di dirla (“Old Tape Of Memories”). Ottimo il lavoro alla chitarra, con un suono che rimanda alla Bibbia delle dodici battute ma senza suonare mai calligrafico; personale e puntuale l’approccio di Gaetano Alfonsi alla batteria, minimale come si deve essere nel blues, asciutto ed espressivo. La title-track è semplicemente un classico istantaneo, e scusate se è poco: il blues è questione di anima, non di tecnica, o ce l’hai o non ce l’hai. Raccogliendo pietre ed ossa, il passato è come la polvere che possiedo. Mi sento triste e grato. Questo un frammento tradotto del testo per rendere brevemente l’idea di quanto il progetto sia profondo, credibile e sentito. Si paga il giusto tributo ai padri, ed accade sia con l’ottima versione del traditional “Bo Weavil” (Son House e Skip James avrebbero senz’altro approvato), sia con una commovente interpretazione di “Pay Day” di Mississipi John Hurt.

Centro pieno per un musicista da tenere d’occhio e che speriamo di incrociare molto presto dal vivo.